Il declino dello Stato sociale

Lo Stato sociale? E chi se ne frega. No, proprio in questi termini Toni Negri non la pensa. Però il destino del welfare (cioè lo Stato sociale) così come lo conosciamo oggi non è in testa alle sue preoccupazioni. Lo ha ribadito venerdì a Lugano, quando è intervenuto ad inaugurare un ciclo di conferenze organizzate dalla Fondazione Guido Pedroli proprio sul tema del welfare state. Per il coautore di “Impero” ed ex ideologo della sinistra extraparlamentare italiana infatti lo Stato sociale «è nato dal paternalismo protestante tedesco, pagato dai grandi profitti bancari. Il welfare ha stabilizzato i rapporti di forza. Noi dobbiamo difendere il concetto di classe operaia e non quello di Stato sociale». Nell’intervista che segue Negri precisa le sue tesi sul welfare e traccia qualche via per uscire dalla sua odierna crisi. Allora Toni Negri, partiamo dal cuore del problema che la Fondazione Pedroli con il suo ciclo di conferenze propone: la parabola del welfare è irrimediabilmente discendente? Sì e no. Il welfare è nato all’interno del ciclo fordista, quello dell’operaio-massa. Parte dunque fondamentalmente dalla definizione della produttività, che è determinata come categoria dalla fabbrica, e dal compromesso sociale fra la classe dirigente capitalista e la classe operaia. Il welfare è dunque l’estensione di un’alleanza sindacal-politica che avviene in fabbrica essenzialmente. Oggi effettivamente il lavoro è cambiato, in particolare sono cambiati quelli che lavorano e il tessuto sociale stesso della produzione. Il lavoro non è più quello della fabbrica e non c’è più nemmeno ciò che il welfare difendeva, l’operaio e la sua famiglia, la sua comunità. La ricchezza oggi non è più prodotta tanto da queste forze produttive, ma da forze produttive che si sono molto più estese: ora la ricchezza è essenzialmente prodotta da nuove forme di lavoro immateriali, relazionali, scientifiche. Dunque smaterializzandosi il lavoro si devono ridefinire le risposte per dei bisogni che si sono a loro volta trasformati. È ambiguo parlare in questo contesto di smaterializzazione del lavoro perché sembra che queste persone non lavorino, non fatichino; ma non è assolutamente vero, basti pensare a una badante, a una commessa, a un’assistente di volo, a un impiegato di call center o a un ricercatore universitario. Il problema è di capire a chi potrebbe rivolgersi oggi il nuovo welfare, cioè qual è il welfare in una politica postsocialista se definiamo il socialismo fondamentalmente come quella forma industrial-comunitaria che ha, come ideologia e sentire comune, sostenuto il movimento dei lavoratori nell’ultimo secolo e mezzo. In sostanza però è vero: dobbiamo ridefinire le risposte per dei bisogni che si sono radicalmente modificati in quanto i soggetti si sono trasformati. Oggi la pace sociale deve passare per forza da una risposta ai bisogni e ai desideri di queste nuove realtà sociali. Finora però lo Stato sociale è nato e s’è consolidato all’interno dello Stato-nazione. Cosa comporta lo sgretolamento del sistema degli Stati nazionali per il welfare? Questa è una difficoltà enorme, perché impone di reimpostare il problema all’interno di un quadrante di opzioni che diventano sempre più complesse. La fine del rapporto imperialista classico, per cui lo Stato-nazione si poteva espandere o da un punto di vista direttamente politico-militare attraverso il colonialismo, oppure con la costruzione di dipendenze commerciali che permettevano il controllo delle risorse disponibili, crea una serie di nuovi e difficili problemi. Oggi è però almeno chiaro che il welfare non può più essere concepito semplicemente come qualcosa che si riferisca alle vecchie realtà nazionali, ma deve essere riferito dal punto di vista interno alle migrazioni e, dal punto di vista esterno, alla situazione dei paesi che una volta definivamo in via di sviluppo e che oggi sono totalmente integrati. Il problema è dunque quello di giungere ad un welfare gestito a livelli globali. Questo non lo dicono soltanto degli estremisti, ma anche i più ragionevoli economisti democratici nella Banca mondiale e nel Fondo monetario internazionale. Oggi non è più possibile immaginare dei welfare che si basino esclusivamente su degli equilibri interni. C’è il problema di dare adesso sicurezza a chi il bisogno di sicurezza lo sente oggi: molto sentito in questi anni è la questione delle pensioni. Il problema del pensionamento è molto grosso perché l’evoluzione demografica in atto squilibra le vecchie basi del welfare. Resta il fatto che l’aumento della produttività sociale è stato tale che forse anche in termini quantitativi si potrebbero impostare i rapporti in maniera diversa. Oggi per esempio alcune proposte centrali come quella del reddito minimo garantito per tutti i cittadini può essere facilmente sostenuta anche dal punto di vista economico se si applicano dei minimi correttivi per esempio alla richiesta di una tassa Tobin sulle transazioni finanziarie o se si pensa alle nuove capacità d’intervento sui redditi immobiliari. Ma si tratta anche di ridefinire il tableau économique, che fu stabilito da François Quesnay alla fine del ’700: in esso il rapporto fra investimenti e spesa è legato all’accumulazione capitalistica iniziale. Un aggiornamento del tableau économique impone di capire che cosa produce il sociale, in altri termini di quantificare la produzione delle relazioni sociali: penso alla tematica dell’innovazione linguistica, relazionale, affettiva che sta dentro ai nuovi rapporti sociali. Può fare un esempio concreto? Lo scorso anno Lula ha contestato ad esempio il tableau économique dell’Fmi dicendo che i soldi messi dal suo governo nell’alimentazione dei poveri e nell’educazione nazionale non possono più essere considerati spesa, ma vanno messi a bilancio alla voce investimenti. Considerare investimenti queste che finora erano messe a bilancio come spese è assolutamente fondamentale e ragionevole: non vedo un socialdemocratico che non lo possa sottoscrivere. È chiaro però che in questo modo si modifica in maniera profonda l’iniziale contesto della gestione dei bilanci a livello di impresa, di entità amministrative locali e periferiche e di bilanci centrali. Resta il problema per le forze progressiste di come passare in una fase offensiva: che fare per dare concretezza a questi postulati? È chiaro che c’è una crisi assolutamente profonda che investe gli stessi processi di rappresentanza che, così come oggi si danno, sono del tutto insufficienti ad assumere e rappresentare queste nuove esigenze. I sistemi parlamentari e di formazione dell’opinione pubblica non corrispondono in nessun caso alle esigenze di innovazione: sono completamente dediti al mantenimento e alla conservazione o, ancora peggio, alla neutralizzazione delle nuove istanze. Siamo in una situazione di ancien régime nella quale le richieste di espressione di nuove istanze democratiche si scontrano con una resistenza assolutamente dura da parte del potere esistente e con una capacità di assorbimento rispetto a quelle che sono le forze di sinistra. Non è un caso che la guerra intervenga oggi come fondamento della politica e che per la difesa dei principi fondamentali dell’ordinamento liberale si ricorra ora alla violenza e alla guerra: se la guerra non è più la continuazione della politica con altri mezzi ma diventa il presupposto della politica, allora c’è qualcosa che non funziona più. Siamo in una situazione d’interregno fra il moderno e il postmoderno, è una situazione grave, pesantissima, che non sappiamo come si potrà risolvere ma nella quale si deve prender posizione. Quale può essere il ruolo del movimento altermondialista? Non c’è dubbio che la spallata data dal movimento di Seattle è stata enorme. Come tutti i movimenti esso è ciclico, e ora sta respirando la fase bassa del suo sviluppo. Si tratta di capire se questo movimento sia irreversibile nella formazione democratica delle coscienze oppure no. Io credo che effettivamente sia stato un movimento irreversibile e che se si aprirà una nuova fase di lotte e di discussioni, sarà una fase dominata dalle esigenze radicali del movimento sia per quel che concerne i problemi della pace rispetto alla guerra, sia per quanto riguarda la questione del reddito garantito, sia per quanto concerne la nuova formulazione del modo di governare con l’estensione della democrazia radicale. Gli strumenti di questa democrazia radicale se li deve creare il movimento di volta in volta. L’unica cosa che posso fare è esprimere dei voti che sono anche delle certezze, e cioè che ci saranno delle richieste di partecipazione molto ampie e che le forme nelle quali il governo potrà essere esercitato dovranno essere delle forme di rappresentanza che non espropriano la potenza delle moltitudini ma che vivono all’interno di queste.

Pubblicato il

08.10.2004 04:00
Gianfranco Helbling
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