Il crollo americano

Era solo un bellissimo castello di carta. Prima o poi non poteva che cadere miseramente. Proprio questo è successo alla Enron, la prima impresa energetica americana. Il fiore all’occhiello della new economy, che solo nel maggio scorso annunciava felice di aver raggiunto il primo milione di transazioni via internet, è passata in poche settimane da impresa fiorente ad un cumulo di macerie. La bufera ha travolto dirigenti, dipendenti, società di revisione e tanti personaggi di spicco della politica americana. Bush e molti suoi pupilli da anni avevano stretto solidi legami con questa impresa texana che propagava un solo credo: deregolamentare e portare nel mondo i principi del libero mercato dell’energia. Questa globalizzazione si è rivelata per quello che era: un pericolo per i lavoratori e per chi aveva ciecamente creduto nel miraggio dei soldi facili e sicuri in un paese dove imprese come la Enron chiedono da anni allo Stato di togliersi di mezzo e di lasciare che il libero mercato lavori in pace senza fastidiosi lacci o laccioli. Azioni, lavoratori e pensionati gabbati La fattura più salata la pagano i lavoratori. Nel crollo della Enron non hanno perso solo il lavoro, ma anche i soldi della cassa pensione che erano stati investiti in azioni dell’azienda. Quindicimila dipendenti hanno perso circa 1,3 miliardi di dollari. Per molti è la rovina. È il caso di Charles Prestwood, un operatore di pipelines che se ne era andato in pensione nell’ottobre del 2000 con un capitale di 1,3 milioni di dollari in azioni Enron. Si ritrova con un pugno di mosche e sta attento ad ogni centesimo che spende. Alcuni anziani si ritrovano nella situazione di dover vendere la casa per poter pagare il medico e i medicinali, perché non hanno un’assicurazione malattia. I commentatori economici, che qualche anno fa invitavano ad investire i risparmi di vecchiaia in borsa, adesso pongono l’accento sulla necessità di diversificare, magari acquistando obbligazioni o case di vacanza, e rispolverano vecchie proposte di legge per difendere i piccoli risparmiatori dal pericolo di investire troppo in un solo titolo. I lavoratori si sentono doppiamente truffati perché quando cominciavano a correre voci sulla incerta solidità dell’impresa, loro non potevano vendere le azioni mentre i dirigenti non solo si liberavano dei titoli, ma alcuni se ne andavano presagendo l’imminente affondamento. Risparmi sudati e polverizzati Sono tante le casse pensioni americane che hanno creduto nella Enron. A New York il fondo pensione dei pompieri, della polizia, degli insegnanti e di altri dipendenti pubblici ha perso 110 milioni di dollari. Il Fondo pensione dello stato della Florida si ritrova con un buco di 350 milioni di dollari. Il fatto fa notizia soprattutto perché il governatore della Florida, Jeb Bush, non solo è texano, ma è anche il fratello del presidente. Proprio poche settimane fa Jeb Bush era andato in Texas in casa di un ex presidente della Enron ad organizzare una raccolta di fondi per finanziare la sua imminente campagna elettorale. È incontestato che i Bush hanno da anni stretti legami con i dirigenti di questa società, specializzata nella vendita di energia e nella realizzazione di gasdotti. Negli ultimi anni si è diversificata nei campi più disparati (circa 3000 prodotti) compresi i sistemi internet ad alta velocità, un settore ancora poco sicuro, come lo prova il recente fallimento della Global Crossing, società che nel corso degli anni ’90 aveva creato un network in fibra ottica globale, in grado di collegare 200 città in 27 Paesi. «The Nation», un settimanale della sinistra americana, ha ripubblicato in questi giorni un articolo del 1994, apparso quando Bush aspirava a diventare governatore del Texas. Nell’articolo si parla di una telefonata che Bush avrebbe fatto alla fine degli anni ’80 al ministro argentino Rodolfo Terragno. Voleva convincerlo a concludere con la Enron un contratto per la costruzione di un gasdotto. Per questo non esitò a fargli presente di essere il figlio dell’allora vice-presidente George Bush. Il ministro ebbe la sensazione di ricevere pressioni, ma non si lasciò influenzare. Il governo di cui faceva parte poco dopo cadde e l’anno successivo l’accordo fu approvato dall’amministrazione del presidente Menem, amico della famiglia Bush. L’Argentina, che ora sta pagando duramente gli errori delle recenti amministrazioni, è solo uno degli oltre 40 paesi in cui opera la Enron. Ha ramificazioni in Sudamerica, in Asia, in Europa e in Australia. Molti affari non hanno portato gli utili sperati, ma solo perdite. Secondo il settimanale «Newsweek», alla fine degli anni ’90, la Enron ha perso circa 2 miliardi di dollari nel campo delle telecomunicazione, altri due in progetti idrici, altrettanti in un impianto in Brasile e un altro miliardo in un controverso progetto indiano. Grazie a raffinate operazioni di storno o di trasferimento, i bilanci hanno continuato ad apparire in perfetta salute, al punto che banche importanti, come la J.P. Morgan (avrebbe perso quasi 1 miliardo di dollari nel tracollo della Enron), hanno continuato a pompare soldi nelle tante società create in paradisi fiscali come le Isole Caymans, praticamente sino al giorno in cui il castello di carta è crollato. Non buchi ma voragini Sarà difficile capire che cosa è successo veramente, perché proprio la società di revisione, la rinomata Arthur Andersen, ha distrutto molti documenti importanti. Adesso la Andersen si ritrova nell’occhio del ciclone. I clienti cominciano a porre molte domande. La società di revisione sta perdendo contratti con privati ed enti pubblici. L’opinione pubblica si è chiesta come mai una società di revisione commetta errori così imperdonabili, ma ha capito che se il contratto di revisione apporta 52 milioni di dollari all’anno, la paura di perderlo può far chiudere più di qualche occhio. Sulla vicenda Enron stanno investigando in tanti, comprese varie commissioni parlamentari che hanno già cominciato ad interrogare i protagonisti della vicenda. Le domande che vogliono fare sono tante, ma non è chiaro se riusciranno ad avere le risposte sperate. Un ex dirigente della Andersen si è trincerato dietro il quinto emendamento e parlerà, forse, solo se gli sarà garantita l’immunità. Un vice-presidente della Enron, che se ne era andato in maggio dopo aver capito quello che stava succedendo, si è suicidato. Mentre il vice-presidente Dick Cheney, spalleggiato dal presidente Bush, ha fatto sapere che non fornirà le informazioni richieste dai deputati su chi ha incontrato quando ha stilato il famoso programma energetico la primavera scorsa. Si tratta in sintesi di capire come sono state decise le priorità della politica energetica americana che punta poco sul risparmio e molto sulla costruzione di nuovi impianti e sulla ricerca di nuove fonti energetiche per esempio nelle riserve dell’Alaska. Il caso rischia di innescare una lunga procedura giuridica, tanto più che questo è un anno elettorale e i democratici non vogliono lasciarsi sfuggire l’occasione di profilarsi. Intanto la stampa investiga In questi giorni a Washington c’è chi non dorme tranquillo. La stampa ha cominciato ad investigare e a mettere a nudo i legami che rendono indistricabili i rapporti tra economia e politica. Nei gangli della nuova amministrazione sono finiti uomini che lavoravano in posizioni importanti della società energetica texana, come l’attuale segretario dell’esercito, Thomas White Jr. Anche vari nuovi arrivati nello staff della Casa Bianca hanno alle spalle esperienze nell’impresa guidata da Ken Lay, che Bush aveva soprannominato familiarmente «Kenny Boy». Il tornaconto dei finanziamenti Duecentocinquantanove parlamentari in carica, repubblicani e democratici, hanno ottenuto finanziamenti dalla società texana. Dal 1989 al 2001, la Enron ha versato qua e là quasi 6 milioni di dollari. Tra i primi beneficiari vi sono il presidente Bush e il ministro della giustizia John Ashcroft. Uno tra gli aerei che Bush e Cheney usavano per spostarsi durante la campagna elettorale era della Enron. Molti altri soldi sono stati spesi per operazioni di lobbying. «Dal 1995 ad oggi Enron e Arthur Anderson hanno speso 26 milioni di dollari per comprare influenza politica a Washington» afferma «Public Citizen» l’organizzazione di sorveglianza in difesa dei consumatori creata 30 anni fa da Ralph Nader, il candidato verde alle recenti elezioni americane. L’esperienza insegna che questi soldi sono sempre ben investiti. Infatti quello che chiedono le società in cambio non sono favori personali, ma leggi che permettano alle imprese di operare senza troppe restrizioni per poter fare buoni affari. La Enron predicava la deregolamentazione. La crisi energetica californiana prima e il collasso della Enron provano quanto forti siano i rischi. Resta da vedere se la politica saprà far tesoro di questa esperienza.

Pubblicato il

01.02.2002 05:30
Anna Luisa Ferro Mäder
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