L’opinione pubblica dovrebbe essere maggiormente allarmata sui pericoli della criminalità. Lo si afferma in un editoriale apparso sul Paese, organo politico di stampa dell’Udc ticinese. Eppure la criminalità in sé non è aumentata. Eppure i ticinesi, grazie ad un’eccezionale copertura mediatica, sono sempre ben informati di ogni fatto che esuli minimamente dalla normalità. È quanto è emerso dalla nostra discussione con il criminologo Michel Venturelli. La fine dell’anno è il momento deputato per i sondaggi. Tra i vari e tanti che sono stati fatti ce ne era uno che concerneva le paure degli svizzeri. Ebbene, tra i timori che maggiormente assillano gli svizzeri v’è quello per la criminalità. Una paura che trova una giustificazione in un reale deterioramento della realtà? Non direi proprio. Anzi, la criminalità in sé è in diminuzione. Semmai il crimine è cresciuto dal punto di vista qualitativo: ci sono meno reati ma sono perpetrati in modo più efferato. Si pensi ad esempio alla casistica dei furti. Ci sono delle bande che hanno la propria base nella vicina Italia ma che operano fuori dal Bel Paese. Spesso si tratta di gente che non ha nulla da perdere e non è certo scoraggiata dalla prospettiva del carcere. È triste dirlo ma c’è un’inflazione di miserabili disposti a tutto per un po’ di benessere. D’altra parte, conoscendo le realtà da cui queste persone fuggono, come non capirle? Il vero picco della criminalità lo abbiamo avuto nel 1991. È stato un fenomeno che ha investito praticamente l’intera Europa, le cui cause sono tuttora difficilmente spiegabili. Come si giustifica dunque il timore della gente? Tornando alle paure della gente occorre sottolineare che spesso le persone temono quello che non le colpirà mai. Si pensi alla morte violenta. La Svizzera ha un tasso di omicidi di uno-due morti ogni centomila abitanti. Da questo punto di vista è uno dei paesi più sicuri al mondo. E quando andiamo ad analizzare le cause delle morti violente scopriamo che per la maggior parte dei casi, oltre il 90 percento, si tratta di suicidi o di stragi familiari. È vox populi: un tempo si poteva lasciare la porta di casa aperta e oggi non più. Se per “passato” si intende 50 anni fa, bisogna considerare che allora c’era una criminalità che “si poteva capire”. Erano reati comprensibili. Non esisteva che dei delinquenti facessero crollare la borsa a causa di bilanci aziendali truccati e che al cittadino saltasse 1/2 punto sulla cassa pensione. Non esisteva neppure che un pedofilo adescasse bambini direttamente a casa con l’ausilio di internet. È più immediato capire come funziona una rapina in banca. Inoltre un tempo erano comprensibili anche i malviventi. Quasi tutti parlavano una lingua conosciuta e avevano una cultura simile alla nostra. Oggi abbiamo paura soprattutto delle bande di ladri provenienti dall’est europeo. Gente che si esprime in un idioma incomprensibile e di cui non conosciamo nulla. Deduciamo però che queste persone, vista le temerarietà con la quale operano, sembrano avere poco da perdere. Questo evidentemente fa paura. Inoltre il cittadino intuisce, vista la risonanza mediatica che questi fatti suscitano, che la possibilità di trovarsi faccia a faccia con un indesiderato visitatore è aumentata. Va però ricordato che se è vero che tutti hanno paura di prendersi l’Aids, pochi hanno paura del raffreddore. Eppure le possibilità di prendersi un raffreddore sono infinitamente più alte. Con questo intendo dire che i furti particolarmente audaci sono possibili, come lo sono sempre stati, ma che sono statisticamente improbabili. Un tema che sta molto a cuore delle destre: gli stranieri e la criminalità. È vero che sono in gran parte gli stranieri a delinquere? Se guardiamo le cifre questo dato è inconfutabile. Tuttavia bisogna fare alcune precisazioni e il distinguo va fatto soprattutto tra popolazione residente o frontaliera e gli stranieri di passaggio. Per gli immigrati di prima generazione, ad esempio, il tasso criminalità risulta inferiore a quello della popolazione svizzera. Il vero problema è rappresentato dai pendolari del crimine. Persone che dall’estero vengono in Svizzera per commettervi reati e che si spostano continuamente. Qualche anno fa, ad esempio, c’era una banda di sud africani che veniva anche qui per far furti con scasso. Relativamente facili da incapacitare sono invece quei richiedenti d’asilo che sfruttano il loro statuto per delinquere. Il problema in questo caso è che una volta incapacitato un individuo l’organizzazione ha pronto il suo sostituto; ci troviamo in presenza di un serbatoio infinito di manovalanza “kleenex”: Usato uno ce n’è un altro pronto per l’uso. Anche la criminalità è globalizzata e oggi, sempre più spesso è riconducibile alla diseguaglianza economico-sociale tra i popoli, e ai problemi spicci di sopravvivenza che certe realtà generano. Da cosa è determinato il sentimento di insicurezza della popolazione? Sono principalmente tre i fattori che lo influenzano. Innanzitutto c’è la percezione della propria vulnerabilità. Maggiore è la possibilità di difendersi in caso di aggressione, minore è il sentimento d’insicurezza. Riassumendo, è meglio essere maschi, giovani e in buona salute piuttosto che donne, anziane dalla salute cagionevole. C’è poi l’esposizione al crimine. Negli anni ’80 chi faceva il benzinaio in una zona di confine era molto esposto al rischio di rapina e nutriva perciò un sentimento di insicurezza mediamente più elevato del resto della popolazione. Infine è determinante anche l’immagine della polizia presso la popolazione. Se la popolazione ha l’impressione di essere ben tutelata dalle forze dell’ordine il sentimento di insicurezza decresce, se no aumenta. Interessante è il fatto che i sondaggi registrano una differenza significativa tra chi è stato vittima di reati e chi no. In genere chi non è mai stato vittima di reato ha un’opinione migliore delle forze dell’ordine di chi invece è stato vittima. E i media possono influenzare il sentimento di insicurezza? Sì, il cittadino moderno subisce anche l’influsso delle informazioni. Oggi le notizie ci sono molto più “vicine”, nel senso che dentro al televisore tutto sembra accadere “adesso” e nelle vicinanze immediate. Va poi sottolineato che in Ticino c’è una copertura mediatica notevole e che, come in ogni regione, i fatti emozionalmente importanti sono riportati per lungo tempo e con dovizia di particolari. Insomma, da questo punto di vista, il crimine ci circonda! Quello che sembra preoccupare maggiormente la gente è la microcriminalità. Con l’apertura di numerosi casinò, allettanti per la possibilità di riciclarvi denaro sporco, non rischiamo di attirare una criminalità organizzata ben più pericolosa? La criminalità organizzata opera soprattutto nei grandi business che sono principalmente il traffico di stupefacenti, di armi e di esseri umani. Il casinò certamente rappresenta un ottimo sistema per riciclare denaro sporco, e in questo senso è vero che attira la criminalità organizzata. Va però fatto notare che questa non è la criminalità che il cittadino comune teme perché non ne è direttamente colpito. Un pericolo che potrebbe toccarlo più o meno direttamente invece, è che nei pressi delle case da gioco si instauri un giro di usurai. Persone queste che, in caso di mancata riscossione del credito, utilizzano anche mezzi violenti per recuperare denaro e interessi. A causa di ciò potrebbe verificarsi un aumento della criminalità violenta visibile anche al cittadino e ciò potrebbe far crescere il suo sentimento d’insicurezza. Dal punto di vista della micro criminalità c’è però anche un aspetto positivo. I casinò concentrano in unico luogo difficilmente attaccabile tutte le slot-machine, che pochi anni fa erano sparse nei bar di tutto il cantone, e a causa delle quali si è registrato un notevole incremento dei furti con scasso nei ritrovi pubblici. L'immagine della polizia Abbiamo detto che i reati non sono aumentati o non sono aumentati in maniera allarmante. Abbiamo anche detto che però il crimine è cresciuto in “qualità”. Come si destreggia la polizia ticinese con una criminalità più complessa? È preparata per affrontarla? «La polizia ticinese fa quello che può con quello che ha», risponde il criminologo Michel Venturelli. «Secondo alcuni la polizia non è mai dove dovrebbe, ma questo è ovvio. Chi sta per commettere un reato per prima cosa si sincera che non ci sia polizia nelle vicinanze». Gli errori commessi dalle forze dell’ordine, errare humanum est (ma perseverare è diabolico), si notano quando sono legati ai fatti di cronaca che maggiormente colpiscono l'opinione pubblica. Venturelli porta ad esempio il recente caso dell'assassinio di Flavia Bertozzi ordito da Klaus Opris: «la polizia non è stata sufficientemente tempestiva nel bloccare tutte le vie di fuga dei criminali, in particolare non ha allertato la polizia grigionese che avebbe potuto organizzare un blocco». Errore fatale perché l'assassino si è dileguato proprio in quella direzione. Alla fine Opris è stato catturato in Romania, ma l’esecutore materiale dell’assassinio è tutt’ora uccel di bosco. Un punto debole della polizia ticinese è l'analisi dei dati. «Oggi i dati sono raccolti in modo scientifico e affidabile. Manca però sempre la figura dell’analista criminale in grado di monitorare la situazione in modo da mettere in relazione anche i casi fra loro. Se si vuole combattere un fenomeno è indispensabile conoscerlo a fondo. I dati puri servono a poco senza un’interpretazione scientifica». L'immagine più o meno positiva che la popolazione ha della giustizia è uno dei fattori che possono influenzare il sentimento di insicurezza, cosa si può dire da questo punto di vista? «Prendiamo lo spunto da due fatti molto visibili: la prostituzione e i canapai», continua Venturelli, «ai ticinesi non è sfuggito il dilagare di questi fenomeni che la giustizia non è stata in grado di gestire pur avendoli definiti dei problemi d’ordine pubblico. Per quel che concerne la prostituzione, oggi come ieri, continua a pagare l'anello più debole: la ragazza. Quella che del sistema è spesso vittima. Infatti, esercitando la professione in modo illegale è in balia di tutto quello che le può accadere visto che in caso di bisogno non può rivolgersi alla polizia, pena l’espulsione. Paga dunque la ragazza, tutti gli altri possono sfruttare il suo stato di necessità impunemente. Legate alla prostituzione si sono però anche sviluppate attività che sono degenerate in attività criminali. Anche nel caso dei canapai non mancano le aberrazioni. Poco meno di un anno fa, ad esempio, il tribunale penale ha condannato il proprietario di un canapaio mentre, in quel preciso momento, decine di canapai esercitavano la stessa attività per la quale era stata emanata una condanna. In questo e in casi analoghi la giustizia è addirittura diventata arbitraria, e questo non è certamente rassicurante per il cittadino che non capisce più cosa è lecito e cosa non lo è». Se la repressione non è più una via praticabile, una volta esploso un fenomeno, come affrontarlo? «La soluzione starebbe nel cercare una regolamentazione applicabile alle realtà che si sono venute a creare; è l'unico modo per ridurre i danni e controllare in modo attivo attività anche scomode che, se mal gestite, o non gestite del tutto, possono diventare motore di criminalità», sostiene Venturelli. Una soluzione da contrapporre a «leggi puramente cosmetiche che servono sicuramente ai politici ma certamente non alla popolazione, prova ne è che i bordelli e il loro sottobosco continuano ad esistere e la canapa dilaga». Un'ultima domanda, la riforma in atto ha contribuito a migliorare l'immagine della polizia presso la popolazione? «Viste da fuori come le vedo io, le idee e le intenzioni sono interessanti. I tempi di realizzazione sono però sconcertanti. Sconcertanti al punto che la riforma in atto, più che rappresentare una soluzione sembra essere diventata un serio problema per l’unità del corpo. Unità che il corpo dovrebbe essere in grado di mostrare sempre e comunque verso l’esterno. È evidente che una polizia disunita e chiacchierata non contribuisce a diminuire il sentimento di insicurezza della popolazione». "Ci vuole l'agente di quartiere" Criminalità e sicurezza, un cavallo di battaglia delle destre. Meno delle sinistre. E infatti a destra spesso si accusa la sinistra di essere troppo indulgente su questo tema. Soprattutto quando nei fatti criminali sono implicati gli stranieri, i richiedenti l’asilo in particolare. Abbiamo chiesto ad Anna Biscossa, presidente del Partito socialista ticinese come vengono affrontati questi temi a sinistra. «Bisogna considerare due aspetti di questo discorso, quello emotivo determinato dalla sensibilità delle persone, e quello oggettivo, basato sui numeri e sugli episodi», premette Biscossa. L’emotività legata al sentimento di insicurezza, secondo Biscossa, «è da ricollegare ad un senso di precarietà più generale generato dall’insicurezza del posto di lavoro, del futuro pensionistico, dei risparmi, del futuro per i nostri figli ecc.». Questo non ha nulla a che vedere con la criminalità in sé ma «acuisce la sensibilità nei confronti nell’ennesimo fenomeno che trascende dal proprio controllo». Il dato oggettivo è che «delle meraviglie della globalizzazione ne ha approfittato pure la criminalità che ha accresciuto le proprie risorse». Come contrastare tale evoluzione? «Lo Stato deve rispondere mettendo in campo maggiori risorse anch’esso per poter rispondere in maniera tempestiva». Mentre negli ultimi anni, continua Biscossa, «abbiamo visto diminuire sempre più la presenza tangibile di chi garantisce la sicurezza nelle strade per motivi di risparmio, di presunte razionalizzazione e di una sempre invocata diminuzione dei compiti dello Stato». Ciò che i socialisti reputano un errore gravissimo. Intanto Biscossa ricorda che è in atto la riforma della polizia che spera si attui in tempi rapidi. Tra le novità introdotte v’è la polizia di prossimità. «Ma per creare il “poliziotto di quartiere” ancorato al tessuto sociale è necessaria una formazione specifica e non solo la somma di polizie comunali e cantonali. Il “poliziotto (meglio il “vigile”) di quartiere” è una figura che certamente potrebbe contribuire a migliorare il senso di sicurezza nella popolazione collaborando con la stessa a molti livelli, non solo di ordine pubblico, e soprattutto senza divenire semplicemente un mero strumento di repressione spicciola». Spostandoci su un piano più strettamente politico, chiediamo a Biscossa come mai nella prima bozza del programma elettorale del Ps ticinese non figurasse alcun capitolo dedicato a questo tema, nonostante sia una questione che certamente preoccupa i cittadini. «Faceva parte dei temi dibattuti e verrà aggiunto un riferimento specifico al nostro programma: soprattutto abbiamo pensato al “vigile”di quartiere di cui sopra, ponendo l’accento sulla valenza sociale che tale figura deve avere». L’agente di quartiere servirebbe insomma per colmare il vuoto creato dallo smantellamento progressivo del servizio pubblico che ha tolto delle figure di riferimento rassicuranti sul territorio. Biscossa cita un esempio concreto: «i bigliettai sui treni regionali che avevano il pregio di far sentire i passeggeri più sicuri, soprattutto quelli che viaggiavano soli di notte». Un argomento antipatico ma sul quale l’Udc in special modo imbastisce tante battaglie: gli stranieri criminali. «È un dato che non possiamo negare, pensiamo al caso di alcuni richiedenti l’asilo», conferma Biscossa, «tuttavia non dimentichiamo che gli strumenti repressivi nei confronti di chi delinque esistono e non è necessario perciò inventarne di nuovi». Ma c’è una questione che sta molto a cuore del Ps: la prevenzione. «Chi ha dei motivi validi per richiedere l’asilo non dovrebbe venire a contatto con chi fa parte di organizzazioni criminali. È importante quindi puntare sulla formazione per i giovani stranieri, accompagnare gli stessi durante la permanenza nei centri e permettere ai richiedenti l’asilo di lavorare, cosa che non fa altro che facilitare l’integrazione delle persone nel nostro Paese».

Pubblicato il 

10.01.03

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