Da tre film Silvio Soldini non manca un colpo. Dapprima con il fortunatissimo “Pane e tulipani” (1999), poi con il più sofferto ma non meno riuscito “Brucio nel vento” (2001), ora con il nuovamente leggero ma non banale “Agata e la tempesta” il regista milanese, al ritmo di un film ogni due anni, dimostra di aver raggiunto una notevole solidità artistica. Una solidità che era stata promessa fin dal 1990 con quel premonitore e in qualche modo visionario “L’aria serena dell’Ovest” ma che poi, nei due film successivi, era andata smarrendosi in una strana spirale involutiva. Con “Agata e la tempesta” (in distribuzione attualmente in Ticino e dalla fine di maggio anche nella Svizzera tedesca) Soldini conferma che il successo di critica e di pubblico di “Pane e tulipani” non fu un caso ma che, del suo bagaglio registico, fa ormai parte stabilmente la capacità di cambiare registro con sicurezza e disinvoltura. Protagonista del film è uno strano personaggio al cui passaggio saltano tutte le lampadine: Agata (interpretata da una sempre più convincente Licia Maglietta) ha 44 anni e dirige una libreria. Dopo aver iniziato una problematica relazione con un ventottenne la sua vita viene sconvolta da un’improvvisa rivelazione. Il suo amato fratello Gustavo, che è anche il suo migliore amico, scopre di essere in realtà il figlio illegittimo di una povera contadina che non poteva crescerlo. È Romeo, folcloristico rappresentante di orribili abiti e suo vero fratello, che gli racconta la scomoda verità. Ad Agata e Gustavo non resta altro che cercare di conoscere la famiglia di origine di Gustavo e provare ad iniziare una nuova vita, che si rivela piena di sorprese, non tutte necessariamente piacevoli. In realtà non ha molto senso insistere sulla trama. Perché a Soldini e ai suoi cosceneggiatori (Doriana Leondeff e Francesco Piccolo) né il “messaggio” né la coerenza del racconto interessavano più di tanto (basti pensare alle evidenti e improbabili scorciatoie prese proprio in fase di scrittura). Loro hanno badato a fare un film piacevole, e ci sono perfettamente riusciti. “Agata e la tempesta” è un divertimento intelligente ma non intellettualistico, un film ludico che gioca ad esempio con i libri piuttosto che con gli oggetti, usciti chissà come dal cianfrusagliaio modernista degli anni ’60 per sconvolgere la quotidianità di un mondo, quello di oggi, ad alta tecnologia ma a bassissima capacità di comunicazione. Soprattutto però il nuovo film di Soldini gioca con i colori, che sono tanti, vivi, debordanti, forti di una solarità mediterranea, quasi che il regista volesse rimuovere dalla sua vita i grigi e gli azzurri spenti delle nebbie svizzere filmate in “Brucio nel vento”. “Agata e la tempesta” è dunque soprattutto una fiaba, da prendere così com’è, senza metterne in discussione la coerenza perché non avrebbe senso. Ed è girata molto bene e non senza qualche colpo di genio e di mestiere, come la scena dell’incidente finale, che risolve tutto con una giravolta (e finisce per strizzare l’occhio, se vogliamo, a Emir Kusturica). Un solo appunto serio a Soldini va fatto: la durata, due ore. Qualche minuto in meno non avrebbe guastato, anche se quelle che offre sono due ore piacevoli. Da notare infine che “Agata e la tempesta” è stato coprodotto dalla Amka Films di Savosa e dalla Tsi. Il cinema svizzero fa fatica, resiste più che esistere, ma sa lavorare con intelligenza.

Pubblicato il 

07.05.04

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