Ecologia

Non è solo un professionista competente, ma un appassionato ambientalista, impegnato anche nel Gruppo Unità di Sinistra a Stabio. Francesco Bonavia è venuto a trovarci a Zurigo, ma in un attimo lo perdiamo di vista. Sta passando in rassegna gli alberi del nostro giardino condominiale. Uno di questi attira in particolare la sua attenzione: lo osserva con attenzione e alla fine preleva alcuni semi. Ne possiede a centinaia perché sta creando una vera e propria banca dei semi utile per il suo lavoro. Bonavia è tornato nella città in cui ha studiato ingegneria forestale. Un titolo che gli ha permesso di diventare responsabile prima del vivaio cantonale di Lattecaldo, in Valle di Muggio, e ora del vivaio forestale cantonale del Canton Grigioni a Rodels, nei pressi di Thusis. Il suo lavoro consiste proprio nella raccolta di semi di specie selvatiche di arbusti e alberi a crescita spontanea e nella produzione di piantine destinate a progetti di cosiddetta rinaturazione. Il suo vivaio fornisce infatti piante a istituzioni, enti e associazioni per la rivitalizzazione dei fiumi, per rimboschimenti, per l’arricchimento del paesaggio, per progetti di interconnessione agricola o a favore di uccelli… I vivai svizzeri sono diventati però fondamentali anche per affrontare il cambiamento climatico sofferto dalle Alpi. Con Bonavia cerchiamo di capirne le ragioni:

 

Francesco Bonavia, perché esistono vivai pubblici in Svizzera?   

In Svizzera abbiamo 8 o 9 vivai forestali e 6 di questi sono a gestione pubblica, un tempo erano molti di più. Nel solo Ticino erano una decina. Queste realtà hanno vissuto uno sviluppo impressionante, soprattutto intorno agli anni Sessanta, quando nel paese si è cominciato ad avvertire l’esigenza di proteggere le vie di comunicazione da valanghe e smottamenti attraverso interventi di riforestazione. A partire dagli anni Novanta si è puntato invece sulla rigenerazione naturale, attraverso una semina controllata, e quindi il fabbisogno di piantine è diminuito drasticamente. In questo periodo molti dei vivai hanno cominciato a chiudere, anche se oggi sono tornati a essere fondamentali per affrontare il cambiamento climatico sulle nostre montagne.

 

Ovvero?

Se le temperature su scala globale aumenteranno dell’1,5°, come previsto dagli accordi di Parigi, questo significa che sulle Alpi avremo una crescita media di 4,5°. Questo aumento corrisponde più o meno a 500 metri di gradiente altitudinale, che vuol dire che le piante oggi tipiche di una certa altitudine, in un futuro ormai prossimo, saranno più adatte a quote 500 metri più alte. Questo spostamento del gradiente renderà necessarie azioni mirate di ripiantumazione nei prossimi decenni senza le quali rischiamo di perdere i nostri boschi. I vivai saranno chiamati a intervenire in tal senso. Inoltre, il clima più secco e la maggior presenza di forti precipitazioni violente sono fattori che mettono sempre più a repentaglio la sicurezza e la durata dei nostri ecosistemi. Se dire addio ai nostri ghiacciai è un fattore fortemente legato alle nostre emozioni, le ripercussioni sul bosco di protezione mettono in serio pericolo le vie di comunicazione, i centri abitati e le persone. Il costo da pagare sarà in ogni caso molto alto, senza nemmeno prendere in considerazione scenari con un riscaldamento ancora più forte.

 

Siete preparati anche a tali scenari?

Gli interventi che oggi si fanno nei boschi sono figli di una generale incertezza per quello che riguarda il futuro. Nessuno sa bene cosa accadrà o quali saranno le conseguenze esatte sulle varie specie arboree, quindi si punta sulla biodiversità anche come fattore di riduzione del rischio. In generale sono convinto che piantare alberi sia comunque un buon modo per contrastare il cambiamento climatico. Non può essere l’unica soluzione ovviamente. Scenari peggiori rispetto a quello di Parigi sarebbero una catastrofe per le Alpi e fatico persino ad immaginarli. Dico solo che un aumento delle temperature intorno ai 2,5° potrebbe tradursi in un aumento di 7° o 8° sulle Alpi. 

 

Ci sono specie arboree particolarmente in pericolo in Svizzera?

L’abete rosso è particolarmente esposto. Si tratta di un albero che forniva tradizionalmente legname economico per le segherie. In passato è stato piantato ad altitudini inferiori rispetto a quelle ideali per motivi economici. Arriva infatti fino a 600 metri. Al giorno d’oggi le basse quote sono estremamente colpite dal bostrico, un parassita letale per l’abete rosso, e dai periodi di siccità che ne mettono in pericolo la sopravvivenza. Per questo sempre più spesso questo albero è sostituito con latifoglie attraverso interventi importanti di ripiantumazione.

 

Quale è la situazione negli altri paesi europei? 

Credo che le altre nazioni, quantomeno quelle alpine, abbiano più o meno i nostri problemi e hanno sperimentato come noi la drastica riduzione dei vivai. Il cambiamento climatico imporrà anche a loro un cambio di rotta rispetto ai vivai pubblici per riportare nuove specie in zone dove oggi non ci sono, ma dove tra decenni saranno al posto giusto. Poco tempo fa sono stato in Sudtirolo e ho toccato con mano i danni del cambiamento climatico. Nel 2018 l’uragano Vaia ha colpito queste zone e ha abbattuto milioni di alberi. Un fenomeno mai visto. Oltre a questo, hanno subito anche danni causati da precipitazioni nevose straordinarie negli ultimi due anni. A seguito di questi eventi sono stati colpiti anche dal bostrico, che, grazie alle temperature più alte, riesce a riprodursi più in fretta. Questa serie di eventi a dir poco sfortunati ha spinto le autorità a operare degli interventi straordinari e, quindi, il vivaio locale ha dovuto attrezzarsi per aumentare esponenzialmente la produzione di piantine. Scenari del genere, purtroppo, diventeranno sempre meno rari.   

Pubblicato il 

05.09.22
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