Il cinema riscopre l'Africa

Sette sono le opere che hanno rappresentato il Continente Africa al 55esimo Festival Internazionale del Film di Berlino. Sette film ma un’unica opera assolutamente africana: il documentario che la sudafricana Geldenhuys ha dedicato alla settantacinquenne Grietjie Adams, cantante da molti ritenuta come la vera madre del rap. Si tratta di un film importante perchè reclama l’originalità di una cultura che inutilmente i bianchi hanno cercato di seppellire con l’Apartheid. Sudafricano è per produzione anche il film che meritatamente ha vinto l’Orso d’oro, U-Carmen eKhayelitsha, ma il regista e ideatore del progetto del film, Mark Dornford-May, è un inglese che ha lavorato, con originalità, nei teatri di mezzo mondo prima di approdare proprio in Sud Africa dove ha fondato l’accademia d’arte drammatica Dimpho Di Kopane con i cui allievi ha portato dapprima in teatro e poi nel film il soggetto di questa Carmen che mantenendo nel suo impianto generale le musiche di Georges Bizet stravolge il libretto dell’opera portandolo a dire dei problemi del nostro tempo, soprattutto quelli di un mondo – quello delle bidonville delle grandi città – ancora emarginato. C’è da dire che il regista, alla sua prima esperienza cinematografica, ha molto appreso dalla lezione di Peter Brook, ma dire che il film è culturalmente “africano” risulta alquanto difficile. E ancora più difficile è il trovare un’idea di Africa nel confuso Man to Man che ha aperto il Festival. Il film di Wargnier ha trovato in Sud Africa gli ambienti per raccontare del Centro Africa, poi nel suo tentativo di essere dalla parte dei neri offesi dai presuntuosi bianchi, riesce malamente a dar vita ad una delle opere più stupidamente razziste del nostro tempo. Dal Marocco è venuto Lahna Lalhih di Rachid Boutounes (co-prodotto dalla Francia) un corto, piccola storia di un immigrato pensionato alle prese con la burocrazia. Al drammatico genocidio avvenuto undici anni fa in Ruanda sono stati dedicati due film, uno in concorso (Sometimes in April, coproduzione Usa-Ruanda firmata da Raoul Peck) e uno fuori (Hotel Rwanda, larga coproduzione affidata all’irlandese Terry George, già co-autore con Jim Sheridan del civile In nome del padre). Quest’ultimo film si basa sulla vera storia di Paul Rusesabagina, oggi cittadino belga, un Hutu che con enorme coraggio salvò la vita a centinaia di Tutsi, uno Schindler africano. Sometimes in April ha di più una circostanziata denuncia della responsabilità dei terribili fatti successi in Ruanda. L’haitiano Raoul Peck guida con sicurezza questa produzione hollywoodiana con Debra Winger nel ruolo di Prudence Bushnell, vice assistente del segretario di Stato per gli affari africani in quella primavera del 1994 che vide consumarsi uno dei più gravi genocidi della storia moderna. Condotto da un’etnia, gli Hutu, contro un’altra, i Tutsi, costò la vita ad un milione di persone e provocò il tragico esodo di altri tre milioni e cinquecentomila. Un genocidio compiuto a colpi di machete, guidato minuto per minuto da una radio, Radio Milles Collines, dalla quale gli estremisti hutu, in perfetto accordo con l’esercito, spingevano il popolo a «riempire le tombe di scarafaggi tutsi». Il film racconta di quei cento giorni in cui il mondo occidentale spense, senza alcuna giustificazione, le luci su un Ruanda che gli osservatori dell’Onu già annunciavano pronto ad esplodere: nel paese si trovavano circa 2’500 caschi blu. Per preciso ordine degli Stati Uniti (9 aprile, i massacri erano cominciati il 6 aprile) furono richiamati (il 21, con voto favorevole del Consiglio di sicurezza dell’Onu) con il genocidio in atto, con i cadaveri decomposti per le strade. Il 28 aprile Prudence Bushnell chiamò il ministro della difesa ruandese, Theoneste Bagosora (oggi in carcere accusato di essere la mente del genocidio), per bloccare i massacri, ma non era appoggiata dal suo paese. Il film cerca con grande onestà di raccontare quei giorni e, soprattutto, cerca di dire di oggi, con i processi in atto, con ferite ancora aperte, con un mondo che fatica a dimenticare, che chiede alla solitudine di ognuno il sacrificio di ricominciare. È difficile, sembra voler dire Raoul Peck, ma bisogna provarci. Di oggi e di una situazione sconosciuta ai più parla Arlit, deuxième Paris di Idrissou Mora-Kpai. Il regista del Benin racconta di Arlit, città di confine tra l’Africa Nera e la via all’Europa, nata tra le miniere di uranio, cresciuta a dismisura ai danni dei Tuareg: simbolo di un Africa che cambia pelle violentandosi, questo di Arlit è stato forse il momento più serio e duro del dire e fare cinema presentato a Berlino, terra di incontri, di storie, di vite di oggi che mai diventano numeri, neppure quando dicono Africa.

Pubblicato il

25.02.2005 04:00
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