Il buen retiro di Fidel Castro

Era nell'aria ma, come per ogni grande attore, l'uscita di scena finale resta un coup de théâtre. Un evento storico. Il leader cubano, nel bene e nel male, qualsiasi cosa si possa dire di lui (e si stia dicendo di lui in questi giorni), è stato uno dei massimi protagonisti del '900. Con lui si chiude definitivamente il secolo breve.
In passato, più d'una volta, aveva detto, per lo sconforto dei suoi detrattori dentro e soprattutto fuori Cuba, che "un rivoluzionario non va in pensione". Ma il tempo anche per una quercia tenace e ostinata come Fidel – tenacia e ostinazione che forse deve anche al suo sangue galiziano – è un nemico più forte dei suoi nemici. E alla fine ha vinto. Nel messaggio di congedo, pubblicato martedì sul Granma, ha ribadito il suo desiderio di restare in sella "fino all'ultimo respiro". Ma ha dovuto prendere atto che il poco fiato che gli rimane, dopo il crollo fisico del luglio 2006, non sarebbe bastato per fronteggiare i problemi di fronte ai quali si trova Cuba, la "sua" Cuba. E ha dovuto rassegnarsi ad annunciare il ritiro. Meglio così, perché a una forza della natura come Fidel Castro non si addice il penoso viale del tramonto di tante star che cercano disperatamente di fermare il tempo con lifting e silicone. Ora che non sarà più "el comandante en jefe" potrà dedicare il suo tempo al ruolo che si è ritagliato dopo la sua scomparsa dal palcoscenico dell'ultimo anno e mezzo. Quello del "redactor en jefe". La sue "riflessioni" settimanali sul Granma dimostrano che se il suo corpo è intaccato, la sua mente funziona ancora bene, lucida e brillante.
Meglio così anche perché, per quanto grande e forte possa essere un leader – e Fidel lo è stato –, mezzo secolo di potere è un tempo troppo per chiunque. Troppo per lui e troppo per il paese che governa.
Resta l'incognita della sua ombra. Un'ombra spessa, ingombrante, che ha finora condizionato, fin quasi all'immobilismo, il suo successore "naturale" anche se non si sa se duraturo (e non solo per via dell'età): il fratello Raúl. L'ombra che dal suo buen retiro continuerà a proiettare sul suo e sui suoi successori ma che, in un sistema fin troppo rigido come quello cubano, sarà inevitabilmente meno condizionante ora che non avrà più cariche formali e non sarà più l'incontrastato e incontrastabile "líder máximo".
Di qui in avanti il regime cubano dovrà fare da solo. E anche i cubani, che nonostante i risultati unanimemente riconosciuti (e sicuramente unici in America latina) nel campo della salute, della medicina, dell'istruzione, della protezione dell'infanzia e – perché no – dello sport, è innegabile che non abbiano vita facile e che non siano soddisfatti. Forse pochi di loro si sentono "socialisti", anche se il socialismo di stato sia scritto nella costituzione (ma le costituzioni si riscrivono…), però la gran maggioranza di loro si è sentita protetta e grata a Fidel per l'intransigente nazionalismo mostrato di fronte all'invasiva presenza Usa che prima della rivoluzione del '59 aveva fatto di Cuba il casinò e il casino degli Stati uniti d'America. E la gran maggioranza dei cubani come dei popoli dell'America latina (ma non solo), divorati dal neo-colonialismo e dal neo-liberismo, si è sentita protetta e grata per l'esempio di dignità ferma e di resistenza audace offerto per 40 anni – 40 anni di blocco economico Usa – dalla piccola Cuba castrista. Che se prima esportava rivoluzionari armati e guerriglieri, ora esporta medici e maestri.
Che ne sarà di Cuba senza Fidel? Nel luglio 2006, come in ognuna delle innumerevoli volte in cui Fidel veniva dato per morto a Miami e altrove, non c'è stato l'atteso, annunciato, sperato crollo del regime. A Cuba "non ci sarà né successione né transizione: solo continuità", avevano risposto allora all'Avana. Finora è stato così. Ma d'ora in poi non potrà più essere solo così. Il mix di "vecchia guardia" e di "giovani" di cui parla la lettera di commiato di Fidel dovrà muoversi. Non solo a piccoli passi e con punture di spillo. I problemi nell'agricoltura, nella produzione, nella proprietà, nei trasporti, nella libertà di movimento, nei salari ridicolmente bassi (fra i 5 e i 20 dollari al mese), nella corruzione, nella doppia moneta che ha ricreato sacche di privilegio e sperequazione insostenibili anche dopo il "ritiro" del dollaro troppo simbolico e l'introduzione del "peso convertibile" che convertibile non è, sono molti e gravissimi – e non tutti imputabili all'osceno blocco economico di Washington. E devono essere affrontati e risolti in fretta. Altrimenti…
Esce di scena Fidel, l'ossessione degli Stati uniti, l'uomo che ha resistito e ha visto sfilare dieci presidenti Usa ciascuno dei quali si era impegnato a portare "la libertà e la democrazia" nell'isola ribelle, che ha saputo dire no a Gorbaciov quando nel '91 arrivò all'Avana per imporre la sua perestrojka (e che prima non aveva mai fatto di Cuba, anche nei tempi delle "relazioni fraterne" e delle lotte di liberazione in Africa, un docile satellite dell'Urss), che ha interloquito da pari a pari (e anche con una certa empatia personale) con il papa polacco terminator del socialismo reale, che ha tenuto in piedi Cuba – a volte con metodi spicci e implacabile repressione verso ogni forma di dissenso "fuori dalla rivoluzione" – facendone a suo modo e per molto tempo una "potenza mondiale".
Si vedrà presto se i Raúl, i Lage, i Pérez Roque, gli Alarcon – gli uomini a cui, salvo sorprese, toccherà la successione – saranno capaci di rispondere alla sfida che un'assenza, un vuoto così pesante, nel bene e nel male, impone. Si vedrà anche quale sarà la risposta degli Stati uniti quando, nel gennaio 2009, uscirà il mefitico Bush e alla Casa bianca entrerà, prevedibilmente, Obama o Hillary.
Ora il giudizio su Fidel non spetta più alla cronaca ma alla Storia. Ma fin d'ora non si possono non ricordare alcune intuizioni che hanno fatto di lui un grande, anche quando era da solo o quasi a sostenerle: l'illiceità e l'impagabilità del debito estero, l'opposizione strenua all'Alca, la più recente svolta "ambientalista". E fin d'ora si può dire che non ci sarebbe stata quella che ora molti chiamano la rinascita e qualcuno il rinascimento dell'America latina – i Lula, i Chávez, i Morales, i Correa – se non ci fosse stata Cuba. Cuba di Fidel.

Pubblicato il

22.02.2008 03:30
Maurizio Matteuzzi