Il braciere mediorientale

Il conflitto mediorientale, le sofferenze del popolo palestinese costituiscono indubbiamente una delle componenti maggiori del risentimento della «umma», della comunità musulmana nei confronti degli Stati Uniti e dell’Occidente, accusati di sostenere in modo unilaterale le ragioni di Israele. E sono un’arma nella mani di quanti pianificano, con mire che vanno ben oltre la difesa della causa palestinese, gli attentati contro «il Diavolo» occidentale. Nei territori palestinesi, in quelli occupati o in Israele, non passa giorno senza che il sangue non scorra, senza che non si celebri almeno un funerale (auguriamoci che la tregua programmata martedì sera regga effettivamente...). Si è giunti al punto che i mezzi d’informazione diano conto degli scontri solo se c’è un certo numero di morti, o se la cronaca del giorno offre anche elementi di carattere politico. Altrimenti l’uccisione di una sola persona, specie se palestinese, non sempre «fa notizia». La scorsa settimana le cronache delle incursioni israeliane nei territori dell’Autonomia, che hanno provocato in nemmeno 48 ore oltre venti morti, sono state appena accennate. Come i grani di un rosario, la quotidianità è un succedersi di sparatorie, di esplosioni di bombe, di rappresaglie, di lanci di missili, ancora di rappresaglie. Da una parte e dall’altra. In questo scenario, che ha le punte massime d’orrore nelle stragi provocate dai kamikaze, si rischia di perdere l’essenza del problema, sempre lo stesso, da Oslo in poi: non aver dato seguito alla parola d’ordine «pace contro territori», alla quale il popolo palestinese aveva creduto. Negoziatori di mezzo mondo uniscono la loro voce a quelle dei protagonisti del conflitto, invocando la cessazione della violenza. Ma l’odio e la sete di vendetta hanno avvelenato due popoli cugini (il cui destino è quello di vivere fianco a fianco). In Palestina, in Israele, c’è violenza anche quando non si spara. È violenza la paura dei bombardamenti, è violenza l’angoscia per il timore di un attentato. Sharon, e Peres, sostenuti da americani ed europei, chiedono ad Yassir Arafat di fermare la violenza. Ma nel frattempo ne minano l’autorità, rendendolo sempre più debole. Il blocco dei territori che provoca disoccupazione, carestia e fame, la distruzione di case, di raccolti, di uliveti centenari, l’abbattimento di bestiame hanno portato la popolazione palestinese alla disperazione, all’esasperazione. Tutto ciò mentre cresce il numero dei coloni, vengono costruite nuove strade di collegamento fra gli agglomerati ebrei nei Territori occupati, vengono requisite nuove terre, eretti altri sbarramenti; mentre le persone muoiono nelle autoambulanze ferme ai posti di blocco. Così la popolazione palestinese si chiede quali siano in definitiva i benefici che le vengono dall’autonomia gestita dall’Anp. Questa realtà e non tanto la corruzione e l’autoritarismo del «governo» di Arafat, spinge un numero crescente di palestinesi a cercare altri sbocchi per uscire dal tunnel dell’occupazione. A trarne beneficio sono i movimenti più radicali, quali Hamas, Jihad, specie, com’è naturale, fra i giovani (che costituiscono la metà della popolazione). D’altronde per avere un’idea della crescente adesione ai gruppi che si rifanno all’ortodossia religiosa (non si deve dimenticare che quella palestinese è stata sino a oggi la comunità più laica di tutto il mondo arabo) basta osservare i filmati televisivi: si vedrà il crescente numero di donne, anche fra le giovani, che si coprono il capo o addirittura il volto con il velo. «Con Arafat la pace è impossibile» ha tuonato nei giorni scorsi Ariel Sharon, proprio mentre il suo ministro degli esteri assicurava che l’incontro con il leader palestinese ci sarebbe stato. Per Sharon, Arafat, vero ispiratore della strategia del terrore, va sostituito con un altro leader, disposto realmente a porre fine alla violenza. Difficile dire se il premier israeliano crede veramente a quello che dice. In ogni caso Ariel Sharon ce la mette tutta per arrivare all’esautorazione del leader palestinese. Anche le esecuzioni extragiudiziarie creano il vuoto attorno ad Arafat. Esecuzioni che colpiscono più i dirigenti politici dell’Autorità, i collaboratori di Arafat, che non i responsabili di Hamas o del Jihad. È d’altronde la linea politica seguita da Israele negli anni Ottanta, ai tempi della prima Intifada, quando favorì i gruppi islamici nel tentativo di minare l’autorità dell’Olp. Oggi c’è chi legge nel disegno politico di Sharon una strategia di forza ancora più allarmante: rendere del tutto impotente l’Autorità palestinese, privandola anche fisicamente degli esponenti politici di maggior riferimento, per poi riprendere in grande l’offensiva militare nei territori, ma stavolta contro i «terroristi» di Hamas e Jihad, potendo contare, in questo caso, sull’appoggio americano ed europeo. Appoggio ancor più sicuro dopo gli attacchi a New York e a Washington e di cui Sharon si sta servendo per intensificare l’offensiva contro i Territori dell’Autonomia. Se c’è qualcosa di vero in questa ipotesi, sta proprio alla diplomazia internazionale intervenire per scongiurarla. Ora c’è più che mai bisogno di atti concreti. Gli incontri che non siano mirati a risultati pratici, non hanno senso. Sono i contenuti a dare valore agli incontri e non questi per se stessi. Le premesse però sono pessime. Il governo israeliano sta mettendo in cantiere la costruzione di una serie di «zone cuscinetto» fra Israele e i Territori. Sorgeranno a est della «linea verde» (con ulteriore sottrazione di terreni palestinesi) potranno essere profonde anche due chilometri, saranno formate di barriere elettrificate e di cemento. Dichiarate zona militare, per accedervi sarà necessario uno speciale permesso e i soldati potranno aprire il fuoco sugli intrusi. Loro scopo è quello di impedire l’infiltrazione di terroristi in territorio israeliano. Un obiettivo, come dimostrato da decenni di lotte e di attentati, difficile da raggiungere. Già oggi i controlli sono severissimi, eppure in Israele, quasi quotidianamente viene scoperto qualche ordigno pronto a esplodere. Il «muro» di Sharon (cui aveva già alluso l’ex-premier Barak) in realtà punta alla «separazione» fra l’area palestinese e Israele e in quanto tale costituisce una violazione degli accordi di Oslo ( ma le violazioni di quegli accordi sono ormai innumerevoli: una delle più recenti è l’occupazione da parte israeliana dell’Horient House di Gerusalemme-Est). Le sbarre si vedono dalle due parti e non sempre i secondini sono più liberi dei detenuti. L’inconsistenza politica dei laburisti regala a Sharon un insperato appoggio da parte dell’opinione pubblica. Sono d’altronde i frutti della propaganda che si era andata sviluppando sin dal fallimento del negoziato a Camp David e dal tardivo incontro di Taba, allorché tutta la colpa venne addossata ad Yasser Arafat, anche se era subito emerso che le famose «concessioni» di Barak non erano poi tali da poter essere accettate. Israeliani e palestinesi si trovano ormai sull’orlo del baratro. Il peggio può essere scongiurato solo attraverso una soluzione politica. Lo hanno ricordato questa estate con un appello coraggioso israeliani e palestinesi esponenti del mondo politico e culturale. Personalità quali Yasser Rabbo, Hanan Ashrawi, Yossi Beilin e David Grossman hanno affermato con vigore che «una soluzione negoziata fra i nostri due popoli è possibile»; «una soluzione fondata sulle frontiere del 1967 e su due Stati, Israele e la Palestina, fianco a fianco, con Gerusalemme rispettiva capitale»; soluzioni giuste e durature possono essere trovate a tutti i problemi in sospeso». L’alternativa è il baratro.

Pubblicato il

21.09.2001 01:30
Gaddo Melani