La generazione del Sessantotto sbarca al cinema. Sono tre i film italiani recenti che hanno deciso di fare i conti con quella tempesta ideale ed emotiva che ha per sempre mutato il panorama politico e sociale del mondo occidentale. Uno di questi film, “The Dreamers” (“I sognatori”) di Bernardo Bertolucci è da una settimana in distribuzione in Ticino. Un altro, “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana invece non ha trovato nessun distributore, per cui per vederlo bisognerà fare affidamento su qualche festival (magari Castellinaria di Bellinzona a novembre). Su un’eventuale distribuzione in Svizzera del terzo, “Buongiorno, notte” di Marco Bellocchio, per ora si può invece soltanto sperare. Ma, per quanto Bertolucci abbia un respiro più internazionale, questi tre film sono la prova della rinata capacità del cinema italiano di affrontare con originalità e coraggio la sua storia anche recente. Il film di Bertolucci dev’essere visto nella sua valenza simbolica: “The Dreamers” è una grande metafora per tutto ciò che la generazione del Sessantotto ha sentito e vissuto. Protagonisti sono tre ragazzi poco più che ventenni che a Parigi, nell’imminenza del Maggio, passano intere giornate alla Cinémathèque: si tratta di Isabelle e Théo, due gemelli con un rapporto affettivo morboso, quasi incestuoso, e di Matthew, ragazzotto americano che con gli studi è sfuggito al Vietnam. Il loro primo contatto con la politica è il licenziamento del direttore della Cinémathèque, il famoso Henri Langlois (che nel film interpreta sé stesso), e i conseguenti primi scontri con la polizia. Ma ben presto, complice la partenza dei genitori di Isabelle e Théo per le vacanze, i tre ragazzi si rinchiudono nell’immenso e labirintico appartamento parigino. Lì, in un progressivo avvicinarsi e conoscersi, fra colti quiz cinematografici e giochi erotici e sensuali sempre più audaci, essi si escludono sempre più dal mondo, bastando a sé stessi nella loro immensa nostalgia d’amore: vivono “A bout de souffle”, vien da dire ricordando il film di Godard espressamente citato (come molti altri) da Bertolucci. Ma rischiano, anche letteralmente, il soffocamento in un interno borghese che sempre più puzza di morte. Fino a quando, sull’orlo del baratro, una provvidenziale sassata li richiama alla realtà: è la strada che urla, è la rivoluzione che incombe, è la vita che non può più aspettare. Si può provare sia entusiasmo che profonda avversione per il film di Bertolucci. Il rifiuto viene dall’insistenza con cui il regista di “Ultimo tango a Parigi” (con il cui ricordo evidentemente gioca) mette in scena la sessualità dei suoi tre (bei) protagonisti, quasi riducendo con ciò la rivoluzione nei costumi che il Sessantotto portò a fatto puramente fisico, quasi ginnico: parlare di voyeurismo senile è forse esagerato ma non necessariamente fuori posto. Inoltre troppi sono gli schematismi (a cominciare dalla macchiettistica coppia di genitori di Isabelle e Théo), tante le buone idee lasciate per strada (il gioco di rimandi fra cinema e realtà o il rapporto fra Théo e il padre), e il finale puzza un po’ troppo di nostalgica apologia della molotov. Ma “The Dreamers” può anche entusiasmare. Innanzitutto perché è girato e montato divinamente (fate caso al continuo, difficilissimo gioco di rimandi con gli specchi) ed ha una colonna sonora azzeccatissima. “The Dreamers” però colpisce soprattutto per la complessa metafora che costruisce: il Sessantotto fu effettivamente una liberazione per i rampolli della media borghesia occidentale da un privato borghese e perbenista che permeava ogni istante di vita ed era infine letteralmente soffocante. Fu dalla sfera pubblica, dalla strada, che venne la salvezza. Guardandolo così il film di Bertolucci è non solo godibilissimo ma anche istruttivo ed emozionante. Quasi tutto in interni, con uno scavare nei meandri psicologici dei protagonisti tipico di Bellocchio, si svolge pure “Buongiorno, notte”. Che non è la ricostruzione oggettiva del rapimento, della prigionia e dell’assassinio dell’allora leader della Democrazia cristiana Aldo Moro, ma il racconto mentale, fra realtà e immaginazione, sogni e incubi, speranze e paure, che ne fa la protagonista Chiara. Lei è una delle terroriste delle Brigate Rosse che con Moro convisse per tutta la prigionia. Il suo personaggio è ispirato a quello della brigatista Anna Laura Braghetti così come l’ha raccontato Paola Tavella nel libro “Il prigioniero”. Bellocchio ce la restituisce con uno sguardo tenero, che sembra quello del suo Aldo Moro, così paterno e buono: Chiara è una ragazza sensibile, idealista, ma maledettamente ubriacata di ideologia e quindi come i suoi compagni cieca di fronte alla realtà. Le citazioni di film d’epoca rimandano all’epopea della rivolta operaia e, soprattutto, al mito della Resistenza che tanto influsso ebbero su chi, dalla generazione del Sessantotto, partì per bruciare la sua e le altrui vite sull’altare del terrorismo. Ma la scena più forte, più sovversiva di “Buongiorno, notte” si svolge fuori dall’appartamento: è un sogno di Chiara, che immagina di aver permesso a Moro di fuggire e lo vede tranquillo passeggiare per le vie di Roma deserte nel primo mattino. È una scena forte perché corrisponde ai desideri impossibili di tutto un popolo; è una scena sovversiva perché rompe un tabù: nessuno, nemmeno in quei tragici giorni del ’78, era stato in grado di immaginare Moro libero. Potenza del cinema. “La meglio gioventù” è l’unico dei tre film che sceglie un registro totalmente realista (fatta eccezione per un’unica inquadratura, che però si giustifica narrativamente). Giordana nelle sei ore del suo monumentale lavoro ricostruisce le vicissitudini di tutta una famiglia romana dal 1966 ai giorni nostri. Il suo è l’equivalente cinematografico di un romanzo ottocentesco, nel quale è bello perdersi fra le descrizioni dei personaggi per imparare a conoscerli poco a poco finendo per affezionarcisi. “La meglio gioventù” è una produzione “eretica”: nato come sceneggiato televisivo (cosa che ne spiega la durata), poi ripudiato dalla Rai, è stato ripescato dal festival di Cannes che lo ha selezionato lo scorso maggio, ciò che gli ha permesso di vincere il premio per la sezione “Un certain regard” e di uscire poi nelle sale italiane. Insomma, per una volta la tv, pur volendo far del male al cinema, gli ha fatto un gran bene. Perché “La meglio gioventù” è tutto da vedere su grande schermo, lasciandosi andare ai mille fili della narrazione, fra rivolta studentesca e alluvione di Firenze, terrorismo e chiusura dei manicomi, Tangentopoli e l’evoluzione del costume politico e sociale italiano. Qualche difetto narrativo il film di Giordana ce l’ha, ma ha il merito di fondere privato e pubblico dei suoi protagonisti in un racconto coerente ed appassionante. Come una bella favola: c’era una volta il Sessantotto…

Pubblicato il 

17.10.03

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