Il progetto “1000 donne per il premio Nobel della pace 2005”, lanciato dalla consigliera nazionale socialista bernese Ruth-Gaby Vermot-Mangold, ha conseguito il primo e decisivo traguardo: designare le mille donne candidate da presentare al comitato del Nobel della pace ad Oslo. Sono mille donne di 140 paesi, tra le quali due svizzere, selezionate con l’aiuto di 20 coordinatrici che hanno raccolto proposte e segnalazioni in tutto il mondo. I nomi delle candidate non sono però ancora noti, perché il comitato di Oslo di solito non rivela in anticipo le candidature. Questo contrasta con l’esigenza di rendere visibile e far conoscere il grande lavoro che le donne fanno in tutto il mondo per la pace. Ma un accordo è stato trovato sulla pubblicazione dei mille nomi nel giugno 2005.
«Il nostro progetto è sorto perché non soltanto io, ma anche molti uomini nelle loro missioni in diversi paesi coinvolti in situazioni di guerra, abbiamo incontrato sempre più donne che lavorano per la vita, contro la guerra, contro lo sfruttamento», spiega Ruth-Gaby Vermot-Mangold. Sono donne che ricostruiscono villaggi, fondano scuole, assicurano l’alimentazione, organizzano dibattiti per la soluzione pacifica dei conflitti. Ma il loro lavoro non viene riconosciuto ed apprezzato abbastanza: «Di queste donne non si sente parlare. Delle donne che si battono contro guerre, violenze, ingiustizie. Donne che in Africa lottano contro piaghe come l’Aids, ma anche donne che in Brasile o altrove denunciano il lavoro e la prostituzione minorili, e si battono contro il racket per difendere i diritti umani. Da qui la nostra idea che si debba rendere visibili queste donne, dare un riconoscimento al loro lavoro».
Gli obiettivi del progetto sono tre. Il primo è, ovviamente, il premio Nobel. «Se arriverà o meno, non posso saperlo», dice ancora la presidente del progetto, «ma noi comunque presentiamo mille candidate per l’anno prossimo». Il secondo è la visibilità: «Ricevere il premio Nobel senza ottenere visibilità, sarebbe inutile. È importante far vedere a livello mondiale che cosa producono queste donne, con un lavoro non ricompensato e spesso pericoloso». Il terzo obiettivo è la scienza: il lavoro delle donne per la pace dev’essere studiato, perché «vogliamo che il sapere delle donne, le loro esperienze, diventino accessibili ai governi, alla società civile, alle organizzazioni non governative».
Ma questo è anche un progetto svizzero. E qui Monika Stocker, municipale della città di Zurigo e vicepresidente del progetto, ha voluto sottolineare con orgoglio «che cosa possono fare sei donne svizzere in questa rete globale delle donne. Con un modo di procedere tipicamente femminile, abbiamo raggiunto il primo traguardo. Questo ci rallegra, ma ci richiama anche alla responsabilità di proseguire, di presentare per iscritto ad Oslo questi mille nominativi. L’altra cosa di cui dobbiamo occuparci, è di rendere comunque visibile il lavoro di queste donne. Cercheremo di documentarne le biografie nel modo più ampio e completo possibile, e lo faremo in diverse forme. Una, già definita, sarà la mostra che si terrà in dicembre 2005 ad Oslo, anche se le nostre candidate non avranno ottenuto il premio Nobel».
Monika Stocker rivendica inoltre la responsabilità di trovare il denaro necessario a mantenere la rete di contatti. «In qualità di vicepresidente, sono alla costante ricerca di denaro. Abbiamo tre tipi di donatori a cui ci siamo rivolte. I primi sono le grandi ditte, i grandi sponsor, i grandi finanziatori di questo mondo. E qui siamo rimaste piuttosto deluse. I secondi sono i medio-grandi: fondazioni, banche, assicurazioni, comunità religiose, associazioni promotrici, Ong e così via. Qui siamo rimaste contente a metà. Il terzo tipo di donatori è rappresentato dagli svizzeri comuni: concretamente abbiamo loro offerto di acquistare delle “azioni per la pace” da mille franchi l’una, o un partenariato con una donna della nostra rete per 5 mila franchi. Ebbene, la piramide ci è parsa rovesciata, come ci aspettavamo. La realtà è questa e non ci sorprende: non abbiamo un finanziamento assicurato». Perciò Monika Stocker ha chiesto ai massmedia di parlare il più possibile di questo progetto.
La presidente Vermot-Mangold vede però il problema da un punto di vista più istituzionale: «La Svizzera dovrebbe diffondere, far conoscere questo progetto, il cui messaggio è: la pace si farà, la pace si deve fare, la pace che noi sosteniamo ed alla quale lavoriamo. E le donne che sono impegnate in questo compito dovrebbero avere tutto il nostro appoggio». La Confederazione ha già dato a questo progetto due contributi da 75 mila franchi ciascuno. «Ma dobbiamo superare difficoltà incredibili, che si chiamano canali d’informazione parzialmente impossibili, come in Africa», aggiunge la presidente. Il progetto comunque procede bene, sostenuto «con grande convinzione» dalle 20 coordinatrici. A fine luglio è stata conclusa la raccolta delle“nomination”, arrivate in oltre 1’800, vale a dire molto più di quanto le organizzatrici si aspettassero. Sono arrivate via internet, per fax e per posta, corredate da biografie «incredibilmente affascinanti ed anche impressionanti. Alcune di queste biografie raggiungono anche diverse centinaia di pagine», ha precisato ancora la signora Vermot-Mangold
Dietro ognuna di queste nomine vi è una vera rete di sostenitori. Alle coordinatrici è stato chiesto di escludere le autodesignazioni: per ogni nome ci doveva essere una designatrice o un designatore (molti uomini hanno nominato delle donne) e due cosiddetti testimoni. All’inizio di agosto le coordinatrici e le loro assistenti hanno cominciato a leggere e valutare le designazioni. A fine agosto, appositi comitati composti da esperti con conoscenza dei contesti regionali e con esperienza diretta nel lavoro per la pace, hanno cominciato il difficile lavoro della selezione delle designazioni. Lavoro che adesso è terminato. La prossima tappa sarà la presentazione delle mille candidate al comitato del Nobel per la pace ad Oslo.
Le candidature di Srebrenica
All’annuncio della scelta delle 1000 candidate al Nobel per la pace, erano presenti lunedì scorso a Zurigo anche alcune coordinatrici, che hanno spiegato i motivi di maggiore impegno nelle rispettive regioni. In Africa, per esempio, l’accento viene posto alla lotta all’Aids, alla povertà, alla salvaguardia delle risorse, eccetera. Nei Balcani, il tema dominante sono invece le conseguenze della «sporca guerra», come l’ha definita la coordinatrice Fadila Memisevic. «Srebrenica è stato un simbolo. Un simbolo di vergogna, di sterminio da XX secolo: diecimila persone sono state massacrate sotto le bandiere dell’Onu. E le vedove, le madri, oggi cercano la verità». A questo scopo molte donne sono tornate a Srebrenica ed hanno fondato delle associazioni. E grazie a questo lavoro, donne serbe e donne musulmane si parlano tra loro. Da questa regione, «dove ora c’è una rete, che si chiama “Focus”, composta da 36 organizzazioni», sono arrivate 49 proposte di candidature.
Finalmente riconosciute
Dal 1901, anno in cui il primo premio Nobel per la pace venne dato allo svizzero Jean Henri Dunant, fondatore della Croce Rossa, ed al francese Frédéric Passy, fondatore della prima “Société pour la Paix”, questo alto riconoscimento è stato attribuito ad 80 uomini, a 20 organizzazioni e ad 11 donne. La prima di queste è stata, nel 1905, la scrittrice e pacifista ceco-tedesca Bertha von Suttner, presidente onoraria dell’Ufficio internazionale permanente della pace. L’ultima, la kenyota Wangari Maathai. Ma ora, a cento anni dalla prima donna premiata, il Nobel della pace dovrebbe andare a mille candidate, di cui il 45 per cento è composto da donne (le cosiddette “grassroots”) che fanno un lavoro di base nei loro rispettivi paesi. Un’altra grande fetta, cioè il 43 per cento, sono donne che lavorano nelle istituzioni nazionali e nelle università. Infine, il 12 per cento è composto da donne attive nei parlamenti, nei governi o nelle organizzazioni internazionali. |