Il Molino demolito via mail

A marzo la polizia pianificava l’abbattimento di parte dell’ex Macello. Una decisione autonoma tenuta segreta per tre mesi alle autorità politiche?

La decisione di abbattere uno stabile del Centro sociale autogestito Il Molino all’ex Macello fu presa in emergenza durante le operazioni di sgombero o era stata già preventivata? Ad oggi, sappiamo per certo che fu ipotizzata ben settantatré giorni prima della notte in cui fu demolito. Lo attestano le mail tra i vertici della polizia cittadina e la Cantonale, di cui aveva già riferito Il Quotidiano Rsi in piena estate e di cui ora area pubblica i contenuti.

L’11 marzo, tre giorni dopo i tafferugli alla stazione di Lugano tra manifestanti e polizia, si costituisce lo Stato Maggiore guidato dal vicecomandante della cantonale Lorenzo Hutter per eseguire l’ordine di sgombero deciso dalla maggioranza dell’esecutivo luganese il giorno prima. Dello Stato Maggiore ne fa parte anche un graduato della Polizia comunale luganese, con l’incarico di fare da collante tra i due corpi. Già il primo giorno, quest’ultimo scrive al suo comandante Roberto Torrente e al vicecomandante Franco Macchi. Oggetto della mail: “Ex macello – possibili misure di demolizione”. Dopo aver consultato i servizi cittadini, Macchi risponde: «Il tetto non può essere toccato. Si possono murare gli accessi. In allegato un piano dove sono indicate le parti dell’immobile che si possono demolire». Pronta la risposta del collega: «Grazie Vice, quello stabile è l’attuale dormitorio. Si può demolire e si potrebbe chiamare l’impresa per farlo subito appena effettuato l’intervento???». Macchi conferma, aggiungendo però che «una demolizione prevede una licenza per poter procedere. Non penso che in questo caso qualcuno sollevi la questione, comunque è bene informare chi di dovere». Era la mattina del 12 marzo, a tre mesi di distanza dall’effettiva demolizione dello stabile. Tre mesi in cui nessuno si è preoccupato della licenza edilizia, un agire illegale già minimizzato dal poliziotto.


Ma, dettaglio ancor più inquietante, nessuno si è preoccupato dei potenziali rischi per la salute e l’ambiente scaturiti dalla demolizione di uno stabile all’evidenza vecchiotto. La demolizione totale o parziale di un edificio costruito prima del divieto di utilizzo dell’amianto in Svizzera (1° gennaio 1991), soggiace all’obbligo legale di una perizia preventiva che attesti la presenza o meno di sostanze pericolose. Lo sa chiunque operi nel campo edile o chi è incaricato di far rispettare la legge.
La legge non ammette l’ignoranza, in particolare nel caso di una sostanza assassina che ha ucciso e continua a uccidere centinaia di persone ogni anno in Svizzera.


È stata solo una fortunata casualità che la demolizione dello stabile dell’ex Macello non abbia messo in pericolo la vita delle centinaia di persone presenti (agenti di polizia, operai e cittadini) e del vicinato, in particolare le due scuole frequentate da centinaia di bambini e ragazzi. Nei giorni seguenti alla demolizione, il direttore dell’Istituto scolastico Elvetico proibì a titolo precauzionale ai ragazzi di trascorrere la pausa nel piazzale a meno di cento metri in linea d’aria dall’ex Macello. Nessuno avrebbe messo la mano sul fuoco che lo stabile non contenesse elevati tassi d’amianto. Nelle ore seguenti la demolizione, la Suva intimò il blocco immediato alle operazioni di cantiere in assenza di perizie. Solo le successive analisi confermarono la presenza di amianto, fortunatamente in dosi ritenute non pericolose.


Chi si è assunto la responsabilità di abbattere lo stabile senza accertare l’assenza di sostanze pericolose, persino mortali quali l’amianto?


Appurato che i vertici dei due corpi di polizia pianificassero fin da marzo la demolizione, è plausibile che le rispettive autorità politiche comunali e cantonali da cui dipendono, non ne sapessero nulla? Il Municipio (e in particolare l’allora capodicastero Sicurezza Michele Bertini e la sua subentrante Karin Valenzano Rossi), non furono mai informati dai loro sottoposti? Il governo cantonale o il capodipartimento Norman Gobbi erano all’oscuro di quanto andava pianificando la polizia cantonale? La polizia poteva decidere autonomamente questa soluzione dagli importanti quanto inevitabili risvolti politici? Se davvero così fosse, il paventato rischio di Stato di polizia sostituitosi ai rappresentanti eletti del volere popolare, dovrebbe suscitare allarmanti interrogativi sullo stato di salute democratico nel cantone.


Molti cittadini confidano nell’inchiesta coordinata dal procuratore generale Andrea Pagani per avere delle risposte ai numerosi interrogativi. Erroneamente, forse, si attribuisce troppa responsabilità alla magistratura, chiamata a verificare le eventuali responsabilità penali e non politiche. Una magistratura a sua volta esclusa dalla Polizia quella notte, col picchetto speciale di procuratori pronto a intervenire, ma mai coinvolto dalla Polizia giudiziaria, come rivelato da Il Caffè. Resterà così senza risposta la domanda se un procuratore avrebbe dato il via libera a un’illegale demolizione dagli elevati rischi di messa in pericolo della vita altrui.

 

La traballante scusa del tetto

«Che fretta c’era, maledetta primavera» intonavano i manifestanti nei cortei post-sgombero ironizzando sui motivi di una frettolosa demolizione notturna, senza alcuna precauzione. La giustificazione ufficiale delle autorità è sempre stata l’ipotesi di una possibile rioccupazione degli spazi dopo lo sgombero. Dando per buono che quella notte i molinari fossero riusciti ad avere la meglio del centinaio di poliziotti in assetto antisommossa, perché dare per scontato che la riconquista del sedime partisse proprio da quell’immobile e non da uno degli altri quattro dell’ex Macello?


Tutto poi pare ruotare attorno a quel tetto. «Abbiamo dato l’autorizzazione a demolire solo il tetto, non tutto l’immobile» è la tesi difensiva della municipale Karin Valenzano Rossi. Quasi a sostenere che l’impatto delle rovine di un edificio scoperchiato sarebbe stato meno devastante del cumulo di macerie. Perché politicamente è stato quello l’effetto. Le destre esultanti per l’operazione della rasa al suolo della casa delle odiose zecche (anche se poi all’ala istituzionale è mancato il coraggio di rivendicarla), mentre chi col cuore politicamente a sinistra e una parte consistente della cittadinanza, diciamo democraticamente attenta, stupita e indignata da quell’operazione.


Terza giustificazione delle autorità: «Il tetto dello stabile distrutto era pericolante. Se gli autogestiti fossero riusciti a salirvi, vi erano dei rischi per l’incolumità delle persone coinvolte, manifestanti e agenti di polizia» hanno spiegato a più riprese i municipali. Un articolo apparso nell’ultima edizione de La Domenica solleva forti dubbi su questa versione. «Il 29 maggio le ruspe non hanno demolito il tetto pericolante del centro sociale» titolava il domenicale, specificando che «l’edificio che presenta problemi di sicurezza e ha bisogno di interventi urgenti è ancora in piedi».


In realtà, questa notizia non è una novità. Era già emersa nel servizio giornalistico di Falò “Operazione Macello”, andato in onda poche settimane dopo la demolizione. Ma soprattutto non era una novità per l’autorità politica cittadina. area ha documenti che lo attestano e smentiscono una quarta versione ufficiale ripetuta negli anni dall’esecutivo luganese: «Non abbiamo potuto ristrutturare il tetto perché i molinari non facevano entrare i funzionari comunali per eseguire i lavori».

 

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Alle 17.30 del 19 settembre 2018, una delegazione di architetti del Comune di Lugano e una del Centro sociale autogestito il Molino s’incontrano negli spazi dell’ex Macello per discutere dei lavori di ristrutturazione di un tetto pericolante. I molinari avevano già sospeso da tempo le attività in quello spazio, quando si resero conto della criticità dell’architrave portante. Il Comune, in quanto proprietario dello stabile tutelato quale bene culturale, aveva l’interesse a evitare che crollasse. Soprattutto che crollasse in testa a qualcuno, avendone poi la responsabilità legale quale proprietario. Preceduto da altri contatti, quell’incontro era finalizzato a concordare la tempistica dei lavori senza intralciare le attività del Molino né mettere in pericolo i frequentatori del centro autogestito con infrastrutture di cantiere.

 

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La discussione fu cordiale e delle soluzioni individuate con soddisfazione di entrambe le parti. Gli alti funzionari comunali, ringraziando per la collaborazione, lasciano l’incontro annunciando che presto si sarebbero fatti vivi per comunicare l’inizio dei lavori al tetto pericolante.


Era settembre 2018, lo attestano delle mail scambiate tra gli alti funzionari comunali e il Molino. Dettaglio importante, il tetto non era quello dello stabile poi demolito (che non destava preoccupazioni), ma quello di cui riferiva La Domenica. Il tetto è ancora lì, sempre pericolante. Perché da quel settembre di tre anni fa, dal Comune nessuno si è più fatto vivo e i lavori concordati coi molinari non sono mai iniziati.  


Si fa sempre più strada l’idea, affatto peregrina, che la demolizione non fosse una necessità, ma che qualcuno volesse indirizzare un messaggio di forza agli autogestiti: «Vi raderemo al suolo».


Pubblicato il

21.10.2021 10:11
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