Il 3 giugno la sentenza d'appello

Guariniello: Schmidheiny merita vent’anni di galera

«Per anni è stato più bravo Stephan Schmidheiny a nascondersi, grazie anche all'attività di depistaggio. Ma alla fine, grazie anche alle vittime dell'Eternit e alle loro famiglie, siamo riusciti a capire che quell’immane disastro causato dall’amianto aveva un'unica regia. Dietro c’era la proprietà». Prendendo per l'ultima volta la parola dinnanzi alla Corte d’appello di Torino che lunedì 3 giugno emetterà la sentenza, settimana scorsa il procuratore Raffaele Guariniello ha nuovamente saputo riassumere con grande efficacia la storia del processo per la strage italiana dell’Eternit e delineare con chiarezza le responsabilità degli imputati, il barone belga Jean Louis de Cartier de Marchienne e il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny.  

Per entrambi (condannati in primo grado a 16 anni di carcere per omissione dolosa delle misure anti-infortunistiche sui luoghi di lavoro e per disastro ambientale doloso permanente) Guariniello ha rinnovato la richiesta della pena massima, viste «la gravità dei reati» e «la capacità di delinquere dimostrata»: «Le scelte strategiche che costituiscono condotta primaria per cui procediamo – ha spiegato – sono dei nostri imputati e sono proprio queste scelte strategiche a indurci a chiedere vent'anni di reclusione».
Una condanna da cui sarà sicuramente “risparmiato” de Cartier, deceduto martedì e dunque stralciato dal processo in cui rimane imputato solo Stephan Schmidheiny.


Ed è proprio sul ruolo dello svizzero, subentrato alla guida di Eternit Italia Spa a metà degli anni Settanta, che nelle ultime udienze di questo processo d’appello le parti si sono date battaglia. Il suo difensore, l’avvocato Astolfo Di Amato, ha ribadito la tesi già sostenuta in primo grado, secondo cui quella di Stephan Schmidheiny all’Eternit «non è stata imprenditoria di rapina guidata dalla ricerca ossessiva del profitto». perché «il gruppo svizzero ha perso nella società italiana 75 miliardi di lire, di cui una parte significativa in investimenti per la sicurezza». «All’epoca c’era nel mondo scientifico la convinzione che fosse possibile un uso sicuro dell’amianto mediante abbattimento delle polveri», ha insistito Di Amato.


Questo è «revisionismo storico», «falsificazionismo», un modo per affermare che «le colpe sono di tutti e quindi non sono di nessuno», hanno replicato i pubblici ministeri del pool di Raffaele Guariniello, citando i documenti, le testimonianze, le voci e le immagini che descrivono «ambienti di lavoro polverosi, impianti fatiscenti e inadeguati». E poi c’erano «la consapevolezza del rischio» e il preciso intento di «sottacere la verità ai lavoratori» attraverso una strategia comunicativa “dell’uso controllato”. Una strategia messa a punto nell’ambito di un convegno tenutosi a Neuss (Germania) nel 1976, dove Schhmidheiny convocò i top manager della multinazionale per informarli sul pericolo dell'amianto per la salute e per renderli attenti che “l’alternativa delle zero fibre respirabili nell'aria produrrebbe la chiusura della fabbriche e tanta disoccupazione”. Il problema andava dunque presentato “in maniera adeguata all’interno degli stabilimenti”. Cioè sottaciuto agli operai, come risulta dal discorso conclusivo di Schmidheiny sequestrato dalla Procura di Torino: “È decisamente importante che non si cada ora in forme di panico. Questi giorni di convegno sono stati determinanti per i direttori tecnici, i quali sono rimasti scioccati. Non deve succedere la stessa cosa con i lavoratori”, affermò il magnate svizzero.


In effetti, ai lavoratori della fabbrica di Casale Monferrato (Alessandria), dove l’Eternit ha già causato più di duemila morti e continua a uccidere una persona ogni settimana, raccontarono la favola della “lavorazione in sicurezza” e quella del “risanamento ambientale”. E proprio mentre a Torino nell’aula penale gli avvocati di Schmidheiny esaltavano i suoi «enormi investimenti per la sicurezza», da Casale è giunta notizia della morte per mesotelioma pleurico (il tipico tumore da amianto che purtroppo non dà scampo) di Paola Chiabrera: non aveva mai lavorato l'amianto, non aveva mai vissuto vicino all'Eternit, si era trasferita a Casale solo da adulta; aveva 36 anni ed era nata una settimana dopo che Schmidheiny disse di aver realizzato il “risanamento ambientale”.


Il 3 giugno il verdetto dei giudici della Corte d’appello di Torino.

Pubblicato il

23.05.2013 14:21
Claudio Carrer