“La dignità dell’uomo è il suo principale valore”. Firmato: Stephan  Schmidheiny. Il miliardario svizzero si presenta così sulla pagina iniziale del suo sito internet. Sito interamente dedicato al racconto della sua persona di “filantropo”, di “imprenditore che ha scritto la storia dell’industria moderna” che, dopo aver preso in mano la Eternit nel 1976, “promuove l’abbandono della lavorazione dell’amianto” compiendo così “un atto giudicato allora pionieristico a livello mondiale”. È una narrazione un po’ fantasiosa, che non corrisponde a quanto emerge dagli atti dei processi celebratisi in Italia negli ultimi 15 anni e che tuttora sono in corso, in cui lui è imputato ed è già stato condannato (seppur non ancora in via definitiva) per i morti ammazzati dall’amianto delle fabbriche della sua Eternit, in particolare quella di Casale Monferrato, dove si è consumata e si sta consumando una strage immane. Atti che raccontano di un imprenditore che operava a livello internazionale per procrastinare la messa al bando dell’amianto, per occultare le conoscenze scientifiche sulla sua pericolosità e che in Italia (come altrove), ha proseguito l’attività fino a quando gli è convenuto, ricorrendo alla disinformazione e occupandosi molto del profitto e molto poco della salute dei lavoratori e dei cittadini. Sia durante la sua gestione dello stabilimento casalese sia dopo averlo abbandonato con tonnellate di amianto ovunque.


Non sappiamo se questa inoppugnabile ricostruzione storica diventerà anche una verità giudiziaria e sfocerà un giorno in una sentenza definitiva di condanna per Stephan Schmidheiny. Sappiamo invece con certezza che nulla potrà alleviare le sofferenze e il dolore delle vittime che ci sono state e che ci saranno. Donne e uomini che non cercano vendetta ma a cui è dovuta una qualche forma di giustizia. Magari provando a percorrere una via nuova: quella della giustizia riparativa, come è stato recentemente suggerito a Schmidheiny dai rappresentanti dell’accusa nel processo Eternit bis in corso davanti alla Corte d’Appello di Torino.


Una giustizia nelle mani delle persone che vi accedono, un luogo in cui non si discute di colpa o di sanzione, ma dove guardandosi in faccia si cerca di capire e di trovare risoluzioni alle sofferenze e ai tormenti di chi ha subito e magari anche di chi ha provocato il danno. Proprio per questo la Procura non ha rivolto l’invito all’imputato, ma all’uomo Schmidheiny. E al filantropo che dice di essere. Nella stanza della giustizia riparativa troverebbe una comunità profondamente ferita dalla tragedia, ma che non chiede la gogna e da dove si levano da anni persino delle richieste per incontrare il signor  Schmidheiny. “Una comunità esemplare”, come ha riconosciuto anche il suo avvocato difensore intervenendo in tribunale alcuni giorni fa.


Saprà Schmidheiny cogliere questa opportunità? Potrebbe accadere, se anche per lui (come per il dizionario), la dignità è quella “condizione di nobiltà morale in cui l’uomo è posto dal suo grado, dalle sue intrinseche qualità, dalla sua stessa natura di uomo”

Pubblicato il 

12.12.24

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