I volti del calcio

«Scusate l’incompetenza, in materia di calcio, ma non sono un etnologo!». Questa che sembra una battuta potrebbe essere una frase pronunciata in tutta serietà da un qualsiasi uomo di buon senso. I Mondiali di calcio inaugurano infatti, quest’anno, per la prima volta, una nuova scienza: quella dell’etnocalcismo. Cosa significa essere polacco? Cosa significa essere africano? Cosa significa allenare la propria nazionale? Cosa significa militare nella squadra del proprio paese? Sono tutte domande a cui fino a quattro anni fa si poteva rispondere facilmente, ma a cui oggi si può rispondere solo facendo ricorso a questa nuova scienza: l’etnocalcismo. Una scienza che (ovviamente) non esiste, che non è stata (ancora) codificata né (ancora) è stata registrata in nessuna accademia o istituto di ricerca. Ma alla quale tutti (incosciamente o consciamente) fanno sempre più riferimento. Una scienza che tocca non solo l’ambito dello sport ma anche della cultura, delle religioni, della politica, della geografia, e ovviamente dell’etnicità. Una scienza che si trova a dover dare un nuovo significato a parole che fino a quattro anni fa credevamo di avere capito una volta per tutte. E che adesso dobbiamo invece riformulare da capo: «Patria», «Nazionalità», «Identità culturale», «Tifo», «Appartenenza sociale», «Identità geografica». Che cosa significano questi termini? Osserviamo la realtà, l’aspetto di questi Mondiali. Dimentichiamo per un attimo la competizione, i risultati, le classifiche. Cerchiamo di adottare un punto di vista scientifico: guardiamo quello che ci troviamo di fronte. Al solo passare in rassegna le formazioni e i loro allenatori ci prende un moto di sgomento. Di primo acchito (viste da lontano) si profilano infatti le solite undici figurine, in pantaloncini corti e maglietta numerata, scarpette chiodate e calzettoni sui polpacci, dritte al centro del campo in attesa del fischio d’avvio: alcuni con la mano al petto, altri con le gambe divaricate, alcuni con i capelli lunghi, altri con i capelli corti, alcuni senza capelli, altri senza peli. Ma tutti (visti così) con le solite caratteristiche fisiche che distinguono gli esseri umani dall’origine dei tempi. Con quella faccia un po’ così... Ma zummiamo un po’ di più con la camera verso di loro. Avviciniamo l’obbiettivo, restringiamo il campo, soffermiamoci sulle loro facce, e soffermiamoci (qualcuno ci offrirà una didascalia) sui loro nomi: «Sant’Iddio!» ci viene da esclamare «Ma questo polacco è nero, questo francese sembra un marocchino, questo allenatore biondo dirige una squadra di africani, e questo bianco dirige questi gialli! E questi gialli e questi mori sono arbitrati da una terna arbitrale che sembra la pubblicità dei United Colors of Benetton!». Pensavamo si trattasse della grande sfida mondiale fra i Paesi del mondo e invece è la Grande Conferenza Universale sull’Ecumenismo delle Razze. «Niente male» dice l’uomo di scienza «Per analizzare la realtà bisogna prima di tutto accettarla. Bisogna studiarla per quello che è». Ma proprio in questo momento, di sgomento e di perplessità, cominciano per lui – per l’etnocalciologo – le prime domande. Dapprincipio sembrano domande elementari, che non riguardano che gli effetti ovvi e naturali della globalizzazione. «Per cui – si ripete – è ovvio e naturale che in un mondo sempre più soggetto all’emigrazione e alla comunicazione fra i popoli, questi ultimi finiscano per non avere più un solo colore né una sola apparenza fisica, bensì una miscellanea di cromatismi e di differenze morfologiche». Benissimo: ma poi iniziano le domande più imbarazzanti: e allora l’uomo di scienza (l’etnocalciologo) comincia ad aggrottare la fronte... Lui infatti sa benissimo che i colori e le forme non sono mai semplici dettagli. Sa che potrebbero diventare elementi importanti per un’analisi politica, filosofica, sociologica e culturale del mondo. Sa che, oltre ai capelli e al colore della pelle e al nome dei suoi soggetti, dovrà prendere in considerazione il rapporto fra questi e il misterioso concetto di identità. E sa che una volta intrapreso lo studio dell’identità il suo esame della realtà diventerà, inesorabilmente, molto più incasinato di quanto lo sarebbe per Bruno Pizzul. «Non perdiamoci però d’animo» si dice l’etnocalciologo, che ha dalla sua l’ottimismo del ricercatore. E sa che subito, invece di disperarsi, deve tracciare alcune conclusioni: Le conclusioni dell’etnocalciologo • Che sia in virtù di questi Mondiali di calcio o, semplicemente, in virtù del fatto che i tempi sono maturi per riformulare nuovi pensieri, dobbiamo prendere atto che la nostra identità non dipende ormai più dalle nostre origini. I nostri genitori possono essere di pelle nera, ma noi possiamo sentirci profondamente e sinceramente svedesi. Le nostre tradizioni non sono ormai più il sostrato primario della nostra identità. • Che sia in virtù di questi Mondiali di calcio o, semplicemente, del fatto che i tempi sono maturi per riformulare nuovi pensieri, dobbiamo prendere atto che la nostra identità nazionale può ormai essere duplice o triplice. Possiamo essere di nazionalità turca, ma in pari tempo allenare una compagine giapponese e identificarci in questa identità senza sentirla in contraddizione con la nostra identità d’origine. L’identità come unicità non ha ormai più ragione d’esistere. • Che sia in virtù di questi Mondiali di calcio o, semplicemente, del fatto che i tempi sono maturi per riformulare nuovi pensieri, dobbiamo prendere atto che i confini fra Noi e l’Altro non sono ormai più affatto chiari. Eravamo abituati a credere che le fattezze fisiche, il colore della pelle, la lingua, l’accento e la forma delle dita fossero elementi sufficienti per capire chi eravamo Noi e chi l’Altro e invece dobbiamo prendere atto che tutto ciò non basta più. Anzi, che Noi e l’Altro siamo diventati interscambiabili al punto che se decidiamo di essere l’Altro possiamo esserlo con la stessa facilità con cui l’Altro può decidere di essere Noi. A questo punto il nostro uomo di scienza si pone un interrogativo piuttosto delicato: «Che cosa significa, allora, giocare contro qualcuno se fra un anno o un mese io e lui potremmo tranquillamente ritrovarci insieme... contro qualcun’altro? Che razza di gioco è questo se le regole e gli avversari possono cambiare da una stagione all’altra?». La risposta ovviamente è prematura. E l’uomo di scienza preferisce non darsela. Si preoccupa tuttavia, leggermente turbato, di formulare altre domande, che sicuramente – dice a se stesso – il mondo cercherà di risolvere al più presto. E nel momento in cui comincia a formularle lo assale una sorta di brivido, di panico, come se la logica stessa dell’universo sia in procinto di crollare. E così, turbato e angosciato, non riesce che ad appuntare in fretta le sue domande e a correre via decidendo di lasciare ai posteri l’ardua sentenza... Noi e il calcio Ma quale calcio? • Ma se tutto ciò funziona nel calcio, che ne sarà di Noi? • Ma se Noi e l’Altro possiamo essere la stessa cosa, perché Palestinesi e Israeliani non creano insieme un’équipe per i prossimi Mondiali • Ma se nel 2006 gli Stati Uniti saranno diretti da un allenatore iraniano, come potrà il successore di Bush occupare militarmente Teheran? • Ma se la Comunità Europea limiterà i visti per gli immigrati dall’Africa, chi giocherà nella prossima nazionale francese? • Ma se i figli degli arbitri saranno mariti delle cugine dei giocatori avversari, chi diavolo arbitrerà i prossimi Mondiali? • Ma se la nipotina di Jean-Marie Le Pen rimarrà incinta di un calciatore della nazionale keniota per non rischiare di avere la pelle nera, chi gli spiegherà che sarà necessario aprire le frontiere all’Africa per vedere ancora qualche bianco in circolazione? Domande inquietanti. A cui la storia darà forse un risposta. Ma per il momento occupiamoci di un’altra più pressante preoccupazione: e noi per chi faremo il tifo noi nel 2006?

Pubblicato il

21.06.2002 03:30
Marco Alloni