Un processo «illegittimo», una «persecuzione», una «tortura di Stato». Il signor Stephan Schmidheiny, fresco di un nuovo rinvio a giudizio per omicidio volontario in Italia, cerca di difendersi giocando la carta del vittimismo: dentro il processo tramite i suoi legali e all’esterno con dichiarazioni e auto-interviste a giornali compiacenti. È un gioco che gli riesce facile in Svizzera, dove sulla vicenda dell’Eternit e in particolare sui guai giudiziari dell’illustre concittadino la maggioranza dei media si fa acriticamente portavoce dell’imputato o, nella migliore delle ipotesi, tace. Non è un caso che il nuovo annunciato processo per i morti d’amianto di Casale Monferrato in cui Schmidheiny dovrà rispondere di un reato gravissimo, abbia trovato pochissimo spazio sulla stampa elvetica o sia stato bollato come l’ennesimo capitolo di una “farsa”, come la prova dell’accanimento giudiziario contro questo povero industriale svizzero che avrebbe fatto di tutto per proteggere operai e popolazione dall’amianto (con cui lui faceva profitti) e che sarebbe stato un “pioniere” dell’abbandono dell’uso della fibra mortale. Ma questa è una narrazione fantasiosa, non aderente ai fatti che sono emersi dalla meticolosa e preziosa inchiesta svolta dai magistrati di Torino. Spetterà naturalmente ai giudici stabilire se questi fatti costituiscono reato e giustificano una condanna. Potrebbe anche succedere che la verità processuale non coinciderà con la verità storica emersa dagli atti dell’inchiesta e sorretta dalle solide prove raccolte. Una verità storica incontrovertibile ma che in Svizzera in generale si tende goffamente a nascondere o a negare. Fino ad arrivare al sovvertimento della realtà e dei ruoli, a disegnare un mondo alla rovescia. In perfetta sintonia ovviamente con la strategia difensiva di Stephan Schmidheiny, fatta essenzialmente di vittimismo e di attacchi alla giustizia italiana che ha il “torto” di occuparsi dei morti ammazzati dall’amianto. Di qui l’accusa di «tortura di Stato» da parte dell’Italia nei suoi confronti. In realtà, ad aver subito e a subire una “tortura” sono altri: sono gli operai che lavoravano nelle sue fabbriche impolverate (ma anche le loro mogli che lavavano le tute piene d’amianto e i loro figli che li abbracciavano al rientro dal lavoro), nei confronti dei quali Schmidheiny ha organizzato la disinformazione per negare la cancerogenicità dell’amianto; sono le cittadine e i cittadini di Casale a cui Schmidheiny “regalò” un mulino per la macinazione degli scarti (propri e di altre produzioni) che venivano accatastati e frantumati a cielo aperto con una ruspa a cingoli; è l’ente pubblico che ha dovuto bonificare 92mila metri quadrati dello stabilimento Eternit letteralmente abbandonato nel 1986 da Schmidheiny con dentro tonnellate di amianto libero di disperdersi in città ancora per molti anni; sono le donne e gli uomini dell’Associazione delle vittime che Schmidheiny ha fatto spiare per anni; sono ovviamente le migliaia di persone che si sono ammalate e sono morte e i loro familiari; sono tutti quelli che ancora oggi vivono con l’angoscia di ammalarsi; sono quelli che da troppi anni attendono giustizia. Più che di «tortura di Stato» nei confronti di Schmidheiny, che peraltro per difendersi si può permettere l’avvocato di Berlusconi e Andreotti, si dovrebbe insomma parlare di «tortura d’impresa», come suggerisce in una toccante e lucida lettera Assunta Prato, cittadina Casalese e vedova di una delle tante vittime dell’Eternit che fu di Stephan Schmidheiny, il «perseguitato».
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