Donne

Quando riferiscono di un atto violento da parte di un uomo verso una donna, i media spesso scrivono titoli come: “Ubriache fradicie al party in spiaggia, due quindicenni violentate dall’amichetto”; “Voleva lasciarlo, uccisa dal marito”; “Lui scopre che lo tradiva e la uccide”. In questo modo, magari inconsapevolmente, spostano la colpa di quanto successo anche sulla vittima: aveva bevuto, era vestita in modo provocante, voleva lasciarlo, lo tradiva,…mandando così il messaggio che l’uomo non sia totalmente colpevole del suo gesto. Un messaggio che spesso viene rinforzato nell’articolo. Questo purtroppo avviene anche in sede giudiziaria, è quanto hanno provato alcune ricercatrici italiane con il progetto Step, le quali hanno indagato su stereotipi e pregiudizi di genere, prendendo in esame oltre 16.000 articoli sul tema e quasi 300 sentenze. Un progetto che rientra nell’ambito del programma finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri italiano - Dipartimento delle pari opportunità, per promuovere la prevenzione della violenza contro le donne.

In una lettera inviata il 17 maggio al Consiglio di Stato ticinese la rete Nateil14Giugno chiede che all’Università della Svizzera italiana l’Istituto di diritto e l’Osservatorio europeo di giornalismo si facciano promotori di una ricerca simile al Progetto Step per tutto il territorio nazionale, in collaborazione con altri atenei specializzati presenti in Svizzera. Questo per “diffondere una cultura giornalistica e giudiziaria più idonea ad affrontare il fenomeno della violenza di genere, così come auspicato dalla Convenzione di Istanbul”, si legge nella lettera. Le associazioni firmatarie sono infatti convinte che “conoscere quali siano le principali rappresentazioni da parte dei media e degli ambiti giudiziari, può permettere di intervenire con più chiarezza ed efficacia nel rimuovere quei pregiudizi che ancora troppo spesso impediscono alle vittime di prendere la parola per timore di non essere credute subendo un’ulteriore condanna sociale e diventando vittime di una vittimizzazione secondaria (tramite i media) e terziaria (nelle procedure giudiziarie)”.

La violenza di genere non è molto presente nei media svizzeri, ma il fenomeno è tutt’altro che marginale: secondo le statistiche in Ticino la polizia riceve mediamente tre segnalazioni al giorno per conflitti familiari e violenza domestica, nel Canton Ginevra due, mentre nel Canton Zurigo addirittura 15 al giorno. Quando se ne parla, spesso lo si fa solo su giornali locali o tabloid e l’atto viene impropriamente descritto come un “dramma familiare”, una “tragedia relazionale” o un “caso isolato”, raramente si utilizza il termine femminicidio. Lo abbiamo visto recentemente in Ticino, quando una donna è stata uccisa dall’ex-marito a colpi d’arma da fuoco. Si è scritto di omicidio-suicidio, di dramma familiare e ci si è addirittura interrogati se fosse opportuno o meno usare il termine femminicidio.

In Svizzera, una donna viene uccisa ogni due settimane dal marito, dal partner, dall’ex-partner, dal fratello, dal figlio o da uno sconosciuto. Ogni settimana una donna sopravvive ad un tentato femminicidio. Questo è quanto ha segnalato nel 2019 l’Ufficio federale per l’uguaglianza fra donna e uomo, ma le statistiche sono solo la punta dell’iceberg perché fanno luce sui casi di violenza e di morte noti, mentre il numero dei casi non denunciati rimane sconosciuto. Dall’inizio del 2021 i femminicidi registrati da stopfemizid.ch sono già stati 13 e due quelli tentati; in tutto il 2020 ne sono avvenuti 16 e almeno 5 tentati.

Il perché sia importante riferire in maniera attenta e adeguata di questi temi lo rivelano i risultati del progetto Step, condotto in Italia: l’analisi dei 16.715 articoli dei 15 quotidiani presi in esame e delle quasi 300 sentenze ha portato alla conclusione che la rappresentazione sociale della violenza tende ad attenuare o addirittura omettere le responsabilità degli uomini che commettono un atto violento. Questo sia in ambito giornalistico che giudiziario e attraverso dei meccanismi ricorrenti, “minimizzando” i fatti con: una reazione di lui dovuta a qualcosa che lei ha detto, fatto o non fatto; utilizzando termini riconducibili alla gelosia, al possesso o al raptus e “giustificando” in questo modo il comportamento violento; circoscrivendo l’accaduto all’ambito privato, familiare, di coppia, riconducendolo così alla normalizzazione del conflitto familiare; ridimensionando la violenza sessuale riconducendola ad una naturale “esuberanza” tipicamente maschile.

In questo modo non c’è una chiara rappresentazione del colpevole, anzi, a volte la donna, da vittima, si ritrova ad essere dipinta come colpevole, come se in qualche modo se la fosse andata a cercare, e diventa così vittima tre volte: per la violenza subita, per la rappresentazione colpevole che di lei danno la stampa e l’ambito giudiziario e infine si ritrova confrontata con una giustizia depotenziata proprio da questa narrazione distorta.

Pubblicato il 

02.06.21
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