Non parlerò del caso Masoni. Sono stato colto allo sprovvisto al rientro da un viaggio all’estero di tre settimane; e poi, dopo una scorsa ai giornali, mi pare che siamo ormai arrivati alla saturazione mediatica. Tutto sommato, e malgrado i rumori della battaglia, vedo la vicenda da un punto di vista politico (e quindi al di là dell’etico) come un temporale di stagione. Niente di più.
Rientro da un viaggio di tre settimane in quel continente di desolazione e di silenzio che è la Patagonia centrale che ancora la testa ne risente. Non sono arrivato al fondo di quel concetto che è la Patagonia («Viaggiare in Patagonia» ha scritto Jean Baudrillard «è come andare al limite di un concetto»), no, e neanche alla fine del mondo; e un po’ mi dispiace. Ma tant’è. Vorrà dire che dell’Argentina conserverò altre cose, come per esempio il floreale architettonico del Caffè Tortoni, in Calle de Mayo, a Buenos Aires: una vegetazione di pura luce che casca dal soffitto vetrato al centro del locale. Conserverò le parole e la musica di qualche tango, dense di nostalgia e, a volte, di vera vita. Serberò qualche riga di Borges, le poesie dell’Alfonsina, e quel monumento ai caduti delle Malvine – los Héroes de las Malvinas – che ho visto sul lungomare di Trelew, il soldato di gesso dalla bocca sbreccata come fosse il bordo di una tazzina da caffè, che di eroico non ha proprio nulla. (Il che, tra l’altro, bene rappresenta la precarietà del governo del generale Galtieri, all’inizio degli anni Ottanta, e la pretestuosità di un conflitto che era stato scatenato per mettere a tacere lo scontento popolare, nel quale i soldati erano così male equipaggiati da morire di freddo.)
Dell’Argentina conserverò i venti impetuosi che soffiano senza tregua sul deserto patagonico e che trasportano nuvole pregne d’acqua rubata al Pacifico e portate a sgravarsi ai piedi delle Ande.
Conserverò l’icona del Che, che ancora sopravvive sulle cartoline, sulle magliette e sui muri delle città per dare impulso all’antiamericanismo e una ragione per opporsi fermamente alla presenza sul suolo patrio del Presidente Bush in occasione di un recente summit economico panamericano.
Del Che mi riserverò “la entrañable transparencia de su querida presencia” perché dell’altro Che, quello politico, rimane ben poco. Né il sogno di socialismo né la battaglia per una nuova identità che potesse combattere, o quanto meno opporsi con efficacia, allora come adesso, al degrado capitalistico che oggi si chiama globalizzazione. Certamente incentivato dall’assenza di una memoria collettiva, e quindi di una qualsiasi forma di resistenza a quel surrogato di identità che è il consumo stupido, sfrenato e compulsivo di telefonini, piercing e tattoo. Per non parlare della nuova musica che in nulla si discosta dai modelli occidentali in voga al di qua dell’Atlantico.
Il fatto è che la memoria collettiva, l’identità – come la libertà – non è né può essere una elargizione. Essa si costruisce solo lottando, magari nel presente. |