Dice il gran patron del gruppo farmaceutico: dobbiamo aumentare la produttività. Fa quindi un calcolino: una maggiore produttività del 3 o 4 per cento, sulla cifra d’affari annua del gruppo, dovrebbe darci un maggior guadagno di circa 2 miliardi di franchi.


La produttività è il rapporto tra la produzione e i due fattori di produzione, il lavoro e il capitale (investimenti, macchine, idee). La produttività del lavoro è però l’indicatore ritenuto più importante, più malleabile. Misura infatti il rapporto tra la quantità di lavoro utilizzata, generalmente il numero di ore lavorate o l’effettivo di persone impiegate, per ottenere una determinata produzione.


Non è il caso di addentrarci in un tema complesso e persino ambiguo come “produttività”. Ha sovente messo in difficoltà anche la sinistra (politica, sindacale, economisti non intruppati): da un lato perché vale l’idea che i guadagni di produttività costituiscono un fattore importante di emancipazione umana (se produci di più con minor lavoro, ottieni maggior tempo libero e maggior possibilità di reddito o di distribuzione dei guadagni); d’altro lato perché si ha la consapevolezza che se maggior produttività significa intensificazione (compressione) del lavoro, per ridurne i costi (la massa salariale) e aumentare i profitti, allora si va nello sfruttamento del lavoratore. Oppure nella sua eliminazione (licenziamenti eccetera) o sostituzione (che va dall’automazione alla delocalizzazione là dove i salari sono più bassi).


L’esempio da cui siamo partiti l’abbiamo incontrato spesso negli ultimi anni. Per guadagnare in produttività e competitività si ritiene che l’unica via praticabile sia la compressione massima del costo del lavoro o l’eliminazione dei lavoratori. Il gruppo farmaceutico è Novartis: annuncia la soppressione di 500 posti di lavoro. Una riduzione che segue una più massiccia di due anni fa. La si vende come «ottimizzazione dell’allocazione delle risorse», nel senso che altrove (Nyon) si intende investire. I licenziamenti sono comunque ritenuti «inevitabili». Unia protesta ritenendoli invece «economicamente non necessari», soprattutto se si considerano gli utili ultramiliardari del gruppo (2,3 miliardi nel terzo trimestre).


Produttivismo-utili-licenziamenti è una trafila che ci portiamo appresso da tempo. Si accompagna ad altri paradossi di cui solitamente non si parla. Novartis – stiamo all’esempio – conta 160.000 azionisti iscritti a registro (il 75 per cento di tutti gli azionisti). Quelli individuali detengono il 13 per cento delle azioni registrate; il resto è nelle mani di investitori istituzionali. La maggior parte delle casse-pensioni, che amministrano il denaro-risparmio dei lavoratori, hanno in portafoglio azioni Novartis. Gli aggiustamenti di produttività del gruppo per accrescere gli utili e i dividendi per gli azionisti fanno felici le casse pensioni ma avvengono pure con i soldi dei lavoratori, persino quelli licenziati. C’è di più: nonostante i «generosi piani sociali», come promette l’azienda, ci saranno costi esternalizzati di cui non si tiene mai conto: costi umani ed economici a carico di assicurazioni sociali (disoccupazione, Avs, Ai) e della collettività (perdite fiscali).


Si potrebbero annullare questi paradossi se i gruppi e le imprese, fossero costretti, con i loro azionisti, ad assumere la responsabilità sociale delle conseguenze che generano nella regione e nel paese in cui operano. Ma non lo si pretenderà mai. In nome della… produttività, della competitività, della performance che fanno felici gli azionisti.

 

Pubblicato il 

05.02.14

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