Il 24 aprile 2013 crollava il Rana Plaza, un edificio di otto piani che ospitava cinque fabbriche tessili a Dacca, capitale del Bangladesh. Furono ben 1.138 le persone rimaste uccise: lavoratrici e lavoratori tessili che tagliavano, cucivano e modellavano per i grandi marchi internazionali. Oltre 2.000 rimasero invece ferite. Sette mesi dopo, il 21 novembre, una tragedia simile si verificava anche in Europa, a Riga (in Lettonia), con il crollo del tetto del centro commerciale Maxima, aperto solo dal 2011. Qui i morti furono 54 tra venditori, clienti e soccorritori, mentre altre 41 persone rimasero ferite. Entrambi i disastri portarono alla luce gli abusi che avevano reso possibili queste tragedie: inosservanza degli obblighi di responsabilità sociale da parte di aziende e fornitori e deregolamentazione delle misure di protezione previste dalla legge. Dopo la crisi finanziaria del 2008, si è assistito a un attacco globale agli standard sociali al fine di migliorare il clima imprenditoriale, tagliare la spesa pubblica, ridurre gli oneri amministrativi per le aziende e stimolare gli investimenti. Tuttavia, le tragedie e l’ondata di deregolamentazione hanno innescato un movimento d’opposizione transnazionale. Nonostante la resistenza della lobby imprenditoriale, nel luglio 2024 il Parlamento e il Consiglio dei ministri dell’UE hanno adottato una direttiva sulla catena di approvvigionamento dell’UE, che obbliga le imprese a rispettare gli standard fondamentali in materia di lavoro e ambiente lungo le loro catene del valore. In seguito alla tragedia di Riga, anche l’allora primo ministro lettone Valdis Dombrovskis si dimise. Ma pochi mesi dopo venne promosso a Commissario europeo. Ciò capitò prima che la commissione parlamentare d’inchiesta del suo paese gli attribuisse la “responsabilità politica e morale” della tragedia di Riga. Secondo il rapporto d’inchiesta parlamentare del 2015, il governo di Dombrovskis aveva deliberatamente cancellato la vigilanza sul settore edile e abolito l’Ispettorato statale, il che ha portato alla tragedia mortale. Per assicurarsi la rielezione alla guida della Commissione UE, nell’autunno del 2024 la presidente Von der Leyen ha promesso agli eurodeputati verdi e socialdemocratici che avrebbe in ogni caso attuato la direttiva sulla catena di approvvigionamento. Tuttavia, dopo la sua rielezione, ha nominato proprio Dombrovskis a capo della potente Direzione generale per gli affari economici e finanziari e anche Commissario UE per la deregolamentazione per “l’attuazione e la semplificazione”, al fine di ridurre gli “oneri amministrativi e di rendicontazione per le aziende”. Quando Dombrovskis, lo scorso fine febbraio, ha presentato il nuovo pacchetto legislativo “Omnibus”, è apparso chiaro che questo non è di buon auspicio per la direttiva UE sulla catena di approvvigionamento: le multinazionali dovranno monitorare solo le pratiche dei loro fornitori diretti, non più quelle delle loro lunghe catene di fornitura. Inoltre i controlli dovranno essere effettuati solo ogni cinque anni, anziché annualmente. E poi le aziende non dovranno più essere ritenute responsabili per le violazioni nell’ambito del lavoro, dell’ambiente e dei diritti umani da parte dei loro fornitori. Infine, le aziende che non rispettano gli obblighi di diligenza non dovranno più essere sanzionate con multe dissuasive a livello europeo, ma solo sul piano nazionale. Non è ancora certo se queste proposte saranno attuate. Devono ancora essere approvate dal Parlamento europeo e da una maggioranza degli stati membri. Perché ciò avvenga, Dombrovskis e Von der Leyen devono anche riuscire a convincere i governi di coalizione con partiti socialdemocratici, come ad esempio in Germania o in Austria, a non indebolire la direttiva. |