Vania Alleva e Renzo Ambrosetti sono i candidati unici alla copresidenza di Unia per i prossimi anni. La loro elezione spetta al Congresso che si terrà a Zurigo da giovedì a sabato prossimi. In questa doppia intervista spiegano la loro visione sulle più importanti sfide che dovranno affrontare alla testa del più grande sindacato in Svizzera.

Perché optare per una copresidenza e non per una presidenza unica?
Vania Alleva: È per garantire una certa continuità. Noi siamo una grande organizzazione confrontata con grandi cambiamenti a livello di comitato direttore, poiché la metà dei suoi membri lascia. Noi due siamo complementari: Renzo porta la sua esperienza nei settori dell'industria e dell'artigianato ed io quella nel terziario. D'altro canto rappresentiamo al tempo stesso la stabilità e il cambio generazionale.
Renzo Ambrosetti: Sono completamente d'accordo. È necessaria stabilità a livello di presidenza per accompagnare questa transizione. È per ciò che mi sono messo a disposizione per questa co-presidenza, che è stata sollecitata da diversi gruppi di associati e dalle regioni. Sottolineo che il mandato sarà di due e non di quattro anni.
Quali sono le vostre priorità per i quattro anni a venire?
RA: Innanzitutto, si tratta di rafforzare ulteriormente Unia. Siamo sulla buona strada: quest'anno si chiuderà con un aumento significativo dei nostri associati. È a loro che Unia deve essere vicina, perché le persone aderiscono al sindacato nella misura in cui lo giudicano utile e in esso vi possono trovare un quadro democratico che li fa sentire liberi di esprimersi e di codecidere. Secondariamente, si tratta di continuare a estendere e rafforzare il tessuto contrattuale in questo paese. Terzo: dobbiamo evitare la burocratizzazione, che rappresenta un pericolo per una grande organizzazione come la nostra. Serve dunque maggiore flessibilità nelle nostre strutture interne e non si deve produrre troppa carta.
VA: Dovremmo ottenere una redistribuzione più equa della ricchezza e dei salari, in particolare con il rafforzamento e l'estensione dei contratti collettivi. La battaglia per il salario minimo sarà fondamentale e noi continueremo a lavorare contro la discriminazione salariale. L'altro grande asse su cui lavorare è quello che porta verso una maggiore sicurezza sociale. In particolare con il progetto "Avs+", che mira a un miglioramento dell'Avs da accompagnare alla prosecuzione della battaglia contro il furto delle rendite del secondo pilastro. Il terzo è quello di rafforzare la rete di protezione contro il dumping salariale, contro la precarizzazione delle condizioni di lavoro e contro i licenziamenti antisindacali. Concordo che Unia deve essere vicina ai suoi membri. E, come Renzo, ritengo che dobbiamo sviluppare "Unia forte", un progetto concepito per indurre una maggiore partecipazione dei militanti alla vita sindacale, non solo nelle istanze dell'organizzazione ma anche nei luoghi di lavoro dove auspichiamo una maggiore presenza attiva. È una grande sfida. Si tratta di rafforzare la rete di militanti nei settori e nelle regioni. Questo lavoro va intensificato.
Un bilancio di Unia dal punto di vista della presidenza?
RA: Positivo. Ci siamo consolidati. Ricordo che siamo ancora nel pieno di una tempesta cominciata nel 2008 con la crisi finanziaria, che ha avuto ripercussioni nefaste sull'economia reale. Siamo riusciti a difendere i contratti collettivi di lavoro e in parte a migliorarli. Siamo riusciti a bloccare i tentativi di smantellamento in ambito sociale. A questo proposito ricordo la nostra grande vittoria nella votazione sul secondo pilastro, che ha tra l'altro prodotto molte adesioni spontanee al sindacato. Nell'ambito della difesa dell'impiego nelle imprese, abbiamo pure ottenuto un certo numero di successi, per esempio con la battaglia che ha impedito la chiusura del sito di Nyon di Novartis. Unia è pure riuscita a contenere il malcostume del pagamento dei salari in euro. Il numero dei contratti collettivi è cresciuto. Aggiungo che nel settore del lavoro temporaneo, che impiega 240 mila persone, siamo riusciti a strappare un contratto che ci fa fare un passo avanti nella lotta alla precarizzazione. Nell'ambito della lotta contro il dumping salariale sono state denunciate tutta una serie di violazioni sui cantieri edili fino a guingere a condanne penali come nel caso del Lac in Ticino.
Il partenariato sociale non sta perdendo di significato, con un padronato che sfugge alle sue responsabilità?
VA: I padroni sono sempre più sganciati dalle associazioni di categoria che li rappresentano. Molti si preoccupano prevalentemente dei loro interessi immediati ed hanno una visione a corto termine e che non tiene conto delle realtà sociali. È importante far loro comprendere che in gioco vi è la coesione sociale di questo paese di cui il partenariato sociale è il principale fondamento.
RA: Il partenariato sociale ha segnato dei progressi rispetto agli anni Novanta, quando i campioni dell'ultraliberismo lo giudicavano ormai superato. Il problema è la debolezza delle associazioni padronali. Molti padroni s'interrogano sull'utilità del partenariato sociale, soprattutto quei manager paracadutati che non sanno nulla della realtà svizzera e che sono qui come fossero dei mercenari. Vedono il partenariato e i contratti collettivi come ostacoli al raggiungimento dei loro obiettivi di redditività quando invece sono un "atout", una condizione quadro che andrebbe coltivata. Il fatto di poter negoziare con durezza ai livelli associativi nazionali o cantonali la ripartizione delle ricchezze prodotte è un fattore fondamentale di stabilità. Richiamo dunque il padronato alla coerenza e a lasciar cadere tutte queste pratiche neoliberali che fanno saltare il senso di responsabilità e la coesione sociale.
VA: Uno dei nostri obiettivi principali è di aumentare l'estensione dei contratti collettivi. Per esempio nel settore alberghiero e della ristorazione, si cerca di includere elementi che non fanno ancora parte del contratto. Si tratta poi di integrare i lavoratori precari che spesso sono esclusi dai Ccl. Naturalmente dobbiamo impegnarci a migliorare il contenuto di questi contratti ma anche controllarne l'esecuzione, soprattutto laddove non esiste praticamente alcun sistema di controllo paritetico. Poiché un contratto collettivo non può essere efficace se mancano strumenti di verifica e un sistema di sanzioni che ne assicurino l'applicazione. Va poi mantenuta la pressione sul Consiglio federale e sul Segretariato di Stato dell'economia (Seco) allo scopo di favorire l'estensione dei contratti di settore poiché talvolta siamo confrontati a una serie di ostacoli che ci impediscono di rendere questi Ccl di forza obbligatoria e di contrastare così il dumping salariale. Nell'ambito dei singoli settori professionali, dobbiamo infine lottare per ottenere più contratti a livello nazionale. Si pensi per esempio a quando sarebbe importante raggiungere questo obiettivo nel settore del commercio al dettaglio che impiega più di 300 mila salariati.
E la pace del lavoro? Si deve decidere tra sciopero e pace?
RA: Laddove non esistono contratti collettivi, siamo liberi di utilizzare tutti i mezzi di lotta in modo giuridicamente irreprensibile. Quando siamo in presenza di un Ccl, è diverso. Ma se un datore di lavoro viola sistematicamente il contratto e le norme sulle condizioni di lavoro, è chiaro che deve aspettarsi la legittima opposizione del personale sostenuto dal sindacato, come è stato il caso alla Boillat di Reconvilier. La pace del lavoro è una buona cosa quando c'è il rispetto delle regole. Se questo viene meno, il sindacato si sente libero di agire nel senso auspicato dai lavoratori che hanno subito il torto. So che questa posizione non piace alle associazioni padronali, eppure queste non hanno mai inoltrato alcuna denuncia per degli scioperi proclamati da lavoratori a cui non restava che questo mezzo per far valere i loro diritti.
Unia denuncia sempre più casi di licenziamenti e di rappresaglie che colpiscono i rappresentanti del personale e i delegati sindacali sui luoghi di lavoro. Che fare?
VA: Non so se la situazione è peggiorata rispetto a dieci o quindici anni fa, ma è chiaro che è totalmente inammissibile. Abbiamo appena pubblicato un libro nero sui licenziamenti di questo tipo negli ultimi quattro anni. Licenziare dei rappresentanti sindacali significa minacciare il partenariato sociale e violare una libertà democratica. Per questo abbiamo recentemente rilanciato la denuncia dell'Unione sindacale svizzera (Uss) per il rispetto delle libertà sindacali depositata davanti all'Organizzazione internazionale del lavoro. E continueremo a rivendicare la protezione dei delegati sindacali, sia sul fronte legislativo (visto che il 50 per cento dei salariati non sottostà a un Ccl) sia su quello dei contratti. Il nostro obiettivo è di ancorare questo principio così come il diritto all'informazione sindacale dentro l'impresa in ogni contratto.
RA: Una trentina d'anni fa il licenziamento di un membro di una commissione di fabbrica non entrava nemmeno in linea di conto. Oggi invece si tagliano teste senza patemi d'animo. Non ci si deve dunque sorprendere se il sindacato inasprisce i toni e la lotta. Il padronato deve scegliere: o lo scontro o il mantenimento della ragionevolezza, secondo il principio della buona fede.
VA: Ricordo anche che il Consiglio federale aveva recentemente messo in cantiere una revisione del Codice delle obbligazioni che prevedeva una migliore protezione. Per noi era ancora insufficiente perché non prevedeva per esempio l'obbligo di reintegrare i lavoratori licenziati abusivamente, ma conteneva comunque dei punti positivi. Il padronato ha rifiutato tutte le proposte, persino quella che prevedeva la possibilità di includere nei contratti collettivi delle disposizioni che vadano oltre il minimo legale. Questo contraddice la sua posizione di principio volta a preservare l'autonomia dei partner sociali di fronte allo Stato. È dunque tempo che prenda una decisione chiara, poiché la tutela dei delegati e il diritto all'informazione sono diritti fondamentali.

Pubblicato il 

23.11.12

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