Sostenibilità e responsabilità sono un Leitmotiv per aziende che vogliono stare nel mercato. La prima è da intendersi come capacità di creare nuovi posti di lavoro che assicurino un futuro all’azienda. «La contrazione di lavoro è indicatrice di ritardo nella preparazione per il futuro» spiega David Young Managing Director del Boston Consulting Group, per il quale la strategia di molte imprese di «monetizzare tutti i guadagni di produttività ottenuti con riduzioni di manodopera – piuttosto che reinvestire una parte per creare nuove opportunità future – non è una formula vincente a lungo termine». Invece «creare nuovi posti di lavoro che aggiungono valore, indica che il management e i collaboratori di un’azienda sono adatti per il futuro». Inoltre qualora l’azienda decidesse la riduzione d’organico in un settore, dovrebbe compensare con «creazione di nuovi posti di lavoro che spingano l’azienda verso nuovi servizi e prodotti ad alto valore aggiunto». La responsabilità sociale e ambientale diventata a sua volta una questione inaggirabile per qualsiasi azienda. Infatti vari sono gli attori che s’interessano alla questione: M.R. Kramer li ha raggruppati in quattro gruppi: a) i cosiddetti “watchdog”: ovvero Ong, attivisti, social media che vigilano attentamente sulle pratiche dell’azienda; b) i dipendenti: attenti alla qualità del lavoro, e sempre più all’offerta di facilitazioni, agevolazioni e sostegno a livello formativo, per acquisire o aggiornare le competenze; c) gli investitori che determinano il valore e il destino dell’azienda, i quali pur dando priorità “alle performance economiche”, sono sempre più persuasi che l’impatto sociale e ambientale dell’azienda possa contribuire a migliorare ulteriormente le prestazioni e la competitività; infine d) i clienti sempre più attenti alle pratiche: tipo commercio equo, prodotto ecologico, riciclaggio, ma anche come la gestione del personale. Insomma le aziende che non applicano la strategia “sostenibile” pur procurandosi vantaggi a breve termine, ipotecano il loro futuro, e quelle che non curano la dimensione sociale-ambientale vanno incontro a resistenze e complicazioni. Il ragionamento apparentemente non mostra una grinza. Eppure cela inghippi. Due esempi di aziende “nostrane”: Nestlé e Ubs multinazionali elvetiche, annoverate fra le aziende sostenibili e socialmente responsabili. La prima leader nella produzione di caffè in capsule, ha tagliato recentemente alcune centinaia di posti di lavoro negli stabilimenti vodesi che producono l’assortimento Nespresso, delocalizzando parte delle attività in Spagna e Portogallo. La stessa multinazionale ha però creato il suo Istituto di scienze della salute nel campus del Politecnico di Losanna. Altro caso, a noi vicino: Ubs che ha ridotto posti di lavoro, ma al contempo annunciato la creazione a Manno di un centro di ricerca sull’intelligenza artificiale. Due casi significativi di aziende che applicano la strategia “sostenibile” in sintonia con quanto indicato da Young: sopprimere lavoro in un luogo e compensare con nuovi job laddove c’è stata soppressione. Ma, c’è un rovescio della medaglia: i futuri job, essendo di alta qualifica, richiedono competenze diverse che non dispongono coloro che hanno perso il lavoro. Insomma la “distruzione creatrice” del capitalismo genera ricchezza, ma crea anche problemi: nonostante i piani sociali (anche generosi) “lascia per strada” molti individui che finiscono disoccupati. Una “patata bollente” mollata allo Stato. Quello Stato a cui ambienti padronali vogliono togliere risorse, e che forze politiche vogliono meno. Ma che non esitano a sollecitare per salvare certe aziende, quelle per intenderci “too big to fail”.
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