Lavoro e salute

La temevamo ed è arrivata la seconda ondata di contagi, ma cosa ci portiamo dietro dalla prima? Come stanno le lavoratrici e i lavoratori che dopo un’estate relativamente tranquilla, si vedono nuovamente davanti uno scenario poco rassicurante? Come hanno superato la prima ondata e il lockdown? Ne abbiamo discusso con due psicologhe.

A inizio marzo siamo stati catapultati in una situazione che non conoscevamo: un’emergenza sanitaria mondiale, una pandemia. Gli equilibri e la routine di tutti sono stati scombussolati a più riprese e ogni volta è stato più o meno difficile adattarsi alle nuove norme, alle nuove richieste e all’incertezza che si protraeva e si protrae nel tempo. Che effetti ha avuto e sta avendo tutto ciò sulla psiche delle lavoratrici e dei lavoratori? Ne abbiamo discusso con la dottoressa phil. Chiara Ferrazzo Arcidiacono, capo équipe psicologi e psicoterapeuti dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale (Osc) e coordinatrice della task force psicologica ticinese durante la prima ondata, e con Eleonora Fontana, psicologa e psicoterapeuta del Laboratorio di psicopatologia del lavoro.
Durante la prima ondata pandemica, per rallentare i contagi, è stato indetto a livello federale un lockdown, durante il quale ci è stato chiesto di lavorare da casa, per quanto possibile. In Svizzera però non eravamo abituati al telelavoro, una modalità utilizzata ancora in modo marginale o occasionalmente, perciò questa decisione ha destabilizzato la maggior parte dei lavoratori in un primo momento, come ci conferma Eleonora Fontana, che aggiunge: «La situazione ha tuttavia rapidamente permesso di confrontarsi con un altro modo di concepire il lavoro, che permetteva di ridurre i tempi, evitare gli spostamenti, sfruttare i mezzi tecnologici per la condivisione di informazioni, favorendo la flessibilità e l’autonomia».
Anche all’Osc le segnalazioni sono lievemente aumentate in questo periodo accrescendo il carico di lavoro ci spiega Chiara Ferrazzo Arcidiacono. Quali sono stati i principali disturbi? «Noi di solito riceviamo una casistica ad ampio spettro con una sintomatologia che spazia dalle sindromi da disadattamento, reazioni acute da stress, disturbi d’ansia, depressione e anche disturbi post-traumatici da stress. La pandemia ha determinato una sospensione della routine, delle abitudini, creando un senso di instabilità e smarrimento. A livello psichico non eravamo preparati e ne siamo stati parzialmente travolti e sovrastati: questo ha creato sicuramente un disagio, soprattutto in quelle persone che sono abituate ad avere tutto sotto controllo. È stato però un fenomeno che ha riguardato tutti in maniera trasversale, anche le persone con più risorse: tutti hanno dovuto approcciare e successivamente adattarsi a una nuova condizione di lavorare, di affrontare la quotidianità, di gestire i rapporti interpersonali e le ricadute sul sistema sociale».


La pandemia e il lockdown non hanno però colpito allo stesso modo tutti i lavoratori, occorre distinguere tra chi lo ha vissuto in telelavoro o con la preoccupazione di perdere il posto, nell’incertezza quotidiana, e chi invece, facendo parte di quelle che sono state considerate attività essenziali, ha dovuto continuare a lavorare, ma a ritmi estremamente elevati.


Per i primi non sempre è risultato semplice gestire la propria attività lavorativa senza una chiara struttura del tempo. Diversi lavoratori hanno avuto difficoltà a darsi dei limiti, a non restare iperconnessi anche durante quello che sarebbe dovuto essere il loro tempo libero. «Tra le difficoltà che abbiamo rilevato, vi era anche quella di dover lavorare da casa gestendo i figli che non andavano a scuola, ma anche il vissuto di solitudine e la mancanza delle relazioni sociali», spiega Fontana.


Per i secondi invece le problematiche sono state altre, racconta Ferrazzo Arcidiacono: «Non solo il personale sanitario, ma anche tutti coloro che lavorano attorno a questo settore, persone che ho incontrato con il mio team della task force psicologica. In questo contesto devo dire che il problema era legato piuttosto all’insorgenza di disturbi d’ansia, disturbi del sonno e reazioni acute da stress». È perciò importante ora cercare di lavorare sulla prevenzione di questi disturbi, perché «dal nostro osservatorio clinico abbiamo visto delle persone in difficoltà che hanno vissuto un momento estremamente duro, non hanno avuto il tempo di riprendersi, e che già sono sottoposte alla seconda ondata e quindi a un secondo stress. Sarebbe perciò molto utile per loro avere dei momenti e degli spazi per mettere in parole i loro pensieri e per contenere le loro emozioni e poter in un qualche modo decomprimere tutto il carico emotivo che hanno addosso in questo momento». In generale quello che è stato osservato dalle nostre interlocutrici tra i lavoratori del settore sociosanitario è che se in un primo momento prevalevano un forte senso del dovere e la volontà di dare il proprio contributo, in seguito è subentrato un forte senso di stanchezza e di frustrazione.


Chi lavora nel settore ospedaliero è confrontato regolarmente e già da tempo con la relazione d’aiuto, turni stressanti, carenza di personale e con la gestione dell’urgenza, ma in questo periodo la situazione si è aggravata, aggiungendo inoltre il non sapere quando tutto ciò finirà, la paura del contagio, per sé e per i propri cari, e quindi la necessità di stare fisicamente distanti dalla famiglia, con tutto quello che comporta emotivamente, in un momento dove si avrebbe invece bisogno di quel conforto che un abbraccio può dare.


Come se ciò non bastasse, c’è stata poi anche una «fase molto delicata, in cui i professionisti della cura venivano percepiti da parte della popolazione non più come “eroi”, ma come “possibili untori”», aggiunge Fontana, che prosegue: «Per quanto riguarda invece le altre figure professionali che hanno continuato ad operare durante il lockdown, abbiamo osservato, soprattutto nell’ambito del commercio, dei lavoratori sotto forte pressione. Ci è stato segnalato di frequente il fatto di essere stati confrontati con una mole di lavoro eccessiva. Per far fronte a ciò sono state fatte diverse assunzioni di personale ausiliario che andava formato, cosa che richiedeva tuttavia ulteriore investimento di tempo e di risorse, con la sensazione nel lavoratore di non riuscire a far fronte allo stress. Queste categorie professionali non sono inoltre state sostenute apertamente dalla popolazione come invece è accaduto per il personale sociosanitario, cosa che ha alimentato il vissuto di essere soli e poco considerati durante l’emergenza».


Anche se ad oggi non ci sono ancora statistiche sull’impatto di questa pandemia sulla salute psichica dei lavoratori, quello che è stato osservato dal Laboratorio di psicopatologia del lavoro è che spesso, nelle situazioni già critiche dove erano in corso tensioni o conflitti sul posto di lavoro, queste si sono inasprite, arrivando il più delle volte alla necessità per la persona di avere un distacco dall’ambiente lavorativo o addirittura di sciogliere il rapporto di lavoro. Nel caso invece di chi un lavoro lo aveva già perso prima della pandemia, è stata riscontrata un’acutizzazione di disturbi ansioso-depressivi e una massiccia preoccupazione legata al riuscire a rientrare nel mondo del lavoro. Secondo Fontana, i contributi e gli aiuti decisi dal governo in tal senso hanno sicuramente rassicurato ma l’incertezza permane un importante fattore di stress.


Ci sono anche delle differenze tra l’approccio emotivo alla prima e alla seconda ondata di contagi. Durante la prima ondata infatti c’era sì una grande paura, ma anche un forte senso di unità: ci si ritrovava sui balconi ad applaudire al personale sanitario, si aveva in chiaro l’obiettivo che poteva essere raggiunto solo con un impegno condiviso. «Ora abbiamo l’impressione che le persone siano più stanche, e di riflesso si evidenzia una maggiore difficoltà a sopportare le misure di protezione, le limitazioni alla libertà personale, le richieste e le sollecitazioni che arrivano dal datore di lavoro», dice Fontana.


In ogni caso, rileva Ferrazzo Arcidiacono, gli studi condotti su persone che hanno passato brevi periodi di quarantena mostrano che «ancora dopo tre anni ne sono visibili gli effetti sulla psiche come ad esempio l’abuso di alcol, di sostanze, comportamenti di evitamento, l’uso disfunzionale di mezzi informatici ecc... Quindi penso che, dopo questo lungo periodo di quarantena, caratterizzato da vissuti di continua incertezza, avremo delle possibili conseguenze a livello psicologico (che non vuol dire necessariamente soffrire di una patologia), ad ogni modo per una disamina più approfondita bisogna aspettare».


Che consigli vi sentite di dare per superare il più serenamente possibile questa seconda ondata? «Non perdere di vista l’obiettivo comune. La prima ondata ci ha insegnato l’importanza di mantenere dei buoni rapporti sociali, anche se a distanza, di evitare il bombardamento di notizie, limitandoci a canali affidabili. È fondamentale continuare a seguire una routine, occupandoci di quelle attività che ci permettono di trovare la nostra serenità e di sfogare lo stress. Raccomandiamo inoltre di “ascoltarsi” e di chiedere aiuto in caso di bisogno, prima che una condizione di disagio si inasprisca», conclude Fontana.

Pubblicato il 

05.11.20
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