“Siamo cresciuti in questo regime e vogliamo il cambiamento, una prova che viviamo in democrazia”, ha confessato Yezan Atesyan, studente dell’Università tecnica del Medio Oriente (Metu). “Siamo contrari all’idea di un presidente che resti al potere a vita”, ha aggiunto. Come lui, le giovani generazioni di turchi sono intenzionate a continuare con le imponenti mobilitazioni che dal 19 marzo scorso attraversano le strade del paese. Le proteste sono scoppiate in seguito all’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoğlu, insieme a oltre 90 tra membri del suo staff e altri politici di opposizione, accusati di corruzione. Era dalle mobilitazioni studentesche all’Università Boğaziçi contro l’imposizione governativa del nuovo rettore dell’ateneo nel 2021 e dal movimento di contestazione di Gezi Park (2013) che non si vedeva una così diffusa partecipazione in proteste di massa in Turchia. La vittoria alle primarie e le accuse di corruzione Imamoğlu, principale leader di opposizione al partito di governo Giustizia e Sviluppo (AKP) del presidente Recep Tayyip Erdoğan, era stato messo in custodia cautelare il giorno in cui ha ricevuto il via libera per candidarsi come leader del maggiore partito di opposizione di centro-sinistra, i repubblicani di CHP, durante le elezioni presidenziali che si terranno nel 2028. E così oltre 15 milioni di elettori turchi si sono recati alle urne lo scorso 23 marzo per far sentire la loro voce alle elezioni primarie di CHP, aperte anche ai simpatizzanti di altri partiti. Il presidente turco ha bollato l’intero processo delle primarie repubblicane come una “farsa” accrescendo il suo controllo autoritario sul paese, dopo aver già ampliato a dismisura i suoi poteri in seguito al referendum costituzionale del 2017. Il sindaco di Istanbul, sostituito temporaneamente da un altro politico del suo stesso partito, Nuri Aslan, è stato il solo candidato in questa tornata. In questo modo, il voto per le primarie si è trasformato in una manifestazione simbolica di solidarietà per il politico in carcere, anche da parte dei non iscritti al gruppo repubblicano. “La nazione darà uno schiaffo a questo governo che non dimenticherà mai”, ha commentato Imamoğlu dal carcere rivolgendosi a Erdoğan. Qualche giorno dopo, in un messaggio letto dal politico in un video diffuso nel quartiere di Maltepe, e realizzato con l’ausilio dell’Intelligenza artificiale, si legge: “Non ho alcuna paura. Non ci piegheremo alla tirannia”.
Tuttavia, Imamoğlu, trasferito nel carcere di massima sicurezza di Silivri, nella periferia di Istanbul, continua a rimanere in prigione dopo la convalida dell’arresto con le accuse di corruzione da parte dei giudici turchi. Sono state invece cancellate le accuse di terrorismo. Quest’ultimo reato era stato aggiunto dopo che il sindaco di Istanbul aveva partecipato alla coalizione di opposizione alle elezioni presidenziali del 2023, insieme al partito della sinistra filo-curda Dem, accusata di legami con il partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) considerato un’organizzazione terroristica in Turchia. Come se non bastasse, il politico di opposizione ha visto annullato il suo diploma di laurea, requisito obbligatorio per la candidatura alle presidenziali. Imamoğlu per la prima volta aveva sconfitto il partito di Erdogan alle elezioni municipali del 2019. La repressione delle proteste Sono stati oltre 2mila gli arresti di attivisti e simpatizzanti delle opposizioni dopo oltre due settimane di mobilitazioni. Il partito repubblicano (CHP) ha bollato l’incarcerazione di Imamoğlu, insieme a think tank per i diritti umani e agli altri partiti di opposizione, come una decisione politica della magistratura per eliminare una potenziale minaccia elettorale per Erdoğan. Non sono mancate le violenze della polizia. Gli agenti hanno usato in varie occasioni spray, lacrimogeni e idranti per disperdere la folla. Non solo, tra gli arrestati figurano decine fra giornalisti e fotografi che stavano coprendo gli eventi. Tra loro Onur Tosun dell’emittente Now, i giornalisti Zeynep Kuray, Yasin Akgul e Hayri Tunc, Zisan Gur, Gokhan Kam e Baris Ince di Bir Gun. Evin Baris Altintas a guida dell’Associazione di Studi su Media e diritto, un think tank che difende i giornalisti in prigione, ha criticato duramente gli arresti. “Lo scopo della repressione che prende di mira in particolare i fotografi è di impedire di scattare immagini delle proteste”, ha denunciato. Lo scorso 30 marzo le autorità turche hanno confermato l’arresto del giornalista svedese Joakim Medin, al suo arrivo in Turchia. Pochi giorni prima era stato messo in prigione anche il giornalista inglese della Bbc Mark Lowen, espulso dal paese lo scorso 28 marzo. Le autorità turche hanno anche chiesto la chiusura di 700 account X di giornalisti, figure politiche, studenti e organizzazioni, incluso quello del portale indipendente Bianet, coinvolti nelle proteste. Non è la prima volta che giornalisti e attivisti sono nel mirino in Turchia. Era già avvenuto dopo il fallito golpe militare del luglio 2016, coinvolgendo nelle purghe anche docenti, poliziotti e amministratori pubblici accusati di essere contrari al presidente Erdoğan. Le proteste sono state motivate anche dalla grave crisi economica che ha prodotto alti tassi di disoccupazione e un’inflazione galoppante. “Mi sono laureata nel 2024 e non ho ancora trovato un lavoro. Non posso continuare a pesare sulla mia famiglia”, ha ammesso Duygu, una studentessa di 25 anni che ha preso parte alle proteste. Come se non bastasse, 16 persone, inclusi noti attori e attrici, come Cem Yiğit Üzümoğlu e Zuhal Olcay, sono stati arrestati in relazione alla campagna di boicottaggio, organizzata da CHP, di tutte le attività commerciali filo-governative. La protesta è culminata lo scorso 2 aprile con la richiesta di una giornata intera di “no shopping” in segno di solidarietà con le proteste in corso. Si aggrava lo scontro tra Turchia e Israele in Siria Si aggrava anche lo scontro tra Ankara e Tel Aviv sul futuro della Siria. Da una parte, non si fermano gli estesi raid israeliani nel paese, incluso l’aeroporto militare di Hama. L’esercito di Tel Aviv (IDF), mentre continua ad attaccare Gaza nonostante la grave crisi umanitaria, ha più volte ripetuto di non aver intenzione di ritirarsi dal Sud del paese dopo l’avanzata dei militari nelle Alture del Golan, avviatasi con la fine del regime di Bashar al-Assad lo scorso 8 dicembre 2024. Dopo le operazioni ad Hama, che hanno causato decine di morti, il ministro degli Esteri israeliano ha avvisato che la Turchia sta giocando un “ruolo negativo” in Siria e ha avvertito il presidente siriano pro tempore, leader del gruppo radicale Hayat Tahrir al-Sham (HTS), Ahmed al-Sharaa, che Israele non permetterà l’ingresso nel paese di “forze ostili”. Dal canto suo, il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha accusato Israele di destabilizzare la regione “causando il caos e alimentando il terrorismo”. L’influenza di Ankara nel paese sta crescendo a dismisura dopo il sostegno accordato ad HTS dalla Turchia. E così le autorità turche si stanno preparando ad allestire nuove basi e sistemi di difesa nel paese. Le relazioni tra Israele e Turchia restano tese dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre del 2023 e le accuse di genocidio per le oltre 50mila vittime palestinesi, mosse da Istanbul a IDF. Tuttavia, gli imprenditori turchi hanno continuato ad avere rapporti commerciali consolidati con Israele. Dopo la fine del regime di al-Assad, non sono mancati i tentativi di avviare un faticoso dialogo nazionale da parte di HTS, nella controversa fase di transizione politica, con le minoranze che vivono nel paese, a partire dalle Forze siriane democratiche (SDF), guidate dai curdi. Tuttavia, le divisioni settarie sono andate aggravandosi causando il massacro di oltre mille siriani alauiti, un tempo difesi dalle autorità iraniane in ritirata dal paese. |