l popolo è sempre attraversato da tendenze contraddittorie e dai giochi interni di dominazione. Nel corso di questa giornata dei gilets jaunes, abbiamo sentito propositi xenofobi, razzisti, sessisti e omofobi. Certo, erano molto minoritari, ma è abbastanza che i media se ne impossessino (come hanno fatto a partire dal giorno seguente) perché tutto il movimento sia discreditato.
La storia ci mostra pertanto che una lotta popolare non è mai completamente vana, anche quando viene repressa. Il movimento dei gilets jaunes mette i sindacati e i partiti di sinistra di fronte alle loro responsabilità.
Gérard Noiriel, Les gilets jaunes et les leçons de l’histoire, Le Monde, 20.11.2018


Lo specialista della storia del movimento operaio Gérard Noiriel ha sottolineato come le rivolte antifiscali siano state uno dei motori principali delle insurrezioni contadine e popolari che, durante l’Ancien Régime, si diffusero con il nome di jacqueries, duri conflitti sociali dal carattere spontaneo e non organizzato. Non è di certo un caso se, a partire dalla metà del mese di novembre 2018, i media francesi e internazionali hanno fatto riferimento a questo termine francofono per riferirsi al movimento dei gilets jaunes.


In tutta la Francia dei manifestanti caratterizzati dai gilets catarifrangenti da cui prendono il nome hanno messo in atto delle proteste massicce. Paralizzando l’intero paese i manifestanti hanno rifiutato ogni tentativo di strumentalizzazione politica e le manifestazioni nella capitale in questi weekend di dicembre hanno portato a violenti scontri e alla brutale repressione della polizia. Nella sola giornata di sabato 1° dicembre sono state sparate più di 10’000 granate di stordimento (la Francia è il solo paese europeo a farne uso) e lacrimogene. Gli arresti sono stati più di 410 e anche i feriti si contano a centinaia. Cifre che più del bilancio di una serie di manifestazioni ricordano quelle di un bollettino di guerra.


E di una guerra in fondo si tratta. Una guerra di chi opprime contro chi è oppresso e che conosce, come in ogni guerra, delle vittime riconducibili a delle responsabilità precise. Così come lo sono i morti sul lavoro e i migranti affogati nel Mediterraneo: delle vittime di una guerra di classe. Come sottolineato da Noiriel, è possibile stabilire una correlazione fra le aree geografiche in cui le proteste sono state più partecipate e le zone in cui lo smantellamento del servizio pubblico è stato più forte. Federatisi inizialmente in opposizione all’aumento delle tasse sul carburante, queste jacqueries contemporanee hanno rapidamente elargito lo spettro delle loro rivendicazioni, reclamando misure atte a preservare il potere d’acquisto, la progressività delle imposte, l’aumento delle tassazioni alle multinazionali e le dimissioni del presidente.


Ieri, in Francia, il liberalismo di Macron era presentato come l’unica alternativa pragmatica all’estremismo lepenista, e il ricatto del rispetto dei vincoli di bilancio europei continua a fungere da scusante per la non attuazione di politiche sociali. Il livello dello scontro sociale odierno dovrebbe servire da monito per le forze sindacali e i partiti progressisti.
Oggi, in Svizzera, il Partito Socialista sostiene che il ricatto della riforma fiscale che regalerà miliardi alle multinazionali rappresenta l’unica alternativa per il finanziamento dell’Avs. Il livello dello scontro sociale odierno ci impone di considerare le nostre responsabilità: piuttosto che analizzare intellettualmente le forme di un malessere diffuso, dobbiamo tornare a concentrarci sulle cause. Piuttosto che inseguire una chimerica rivoluzione sociale pura, dobbiamo tornare a una concreta politica di classe.

Pubblicato il 

05.12.18
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