I falsi profeti del meno Stato

L’economista del New York Times B. Appelbaum analizza in un libro come si è arrivati all’estremismo del libero mercato e come se ne sta uscendo

Da settimane a questa parte i media di tutto il mondo sono pieni di notizie che, lette solo due o tre anni fa, avrebbero fatto strabuzzare gli occhi. Il ministro delle Finanze francese sostiene che i fondi europei non arrivano abbastanza in fretta, il capo gabinetto di Angela Merkel spinge per un aumento del deficit, la direzione del Financial Times scrive un editoriale nel quale spiega che le politiche monetarie non funzionano e servono politiche fiscali. E l’amministrazione Biden prova (difficile ci riesca immediatamente) a spingere per il salario minimo a 15 dollari, una battaglia dei sindacati dei servizi che va avanti da una decina d’anni (oggi è circa la metà). Il coronavirus sta cambiando il modo di concepire l’economia e il ruolo del settore pubblico.

L’impressione di una svolta la avevamo già avuta nel 2008, con la crisi dei subprime, ma non andò così. Da oltre 40 anni l’Occidente (l’America in particolare) vive dell’idea che meno Stato, meno tasse, niente deficit e politiche monetarie siano quel che serve. Naturalmente non si tratta di una legge di natura ma di una teoria che ha avuto la meglio sulle altre e di interessi che si sono coagulati per sostenerla. Come è successo? Binyamin Appelbaum, dell’Editorial Board del New York Times, ha scritto un libro ricco di piccoli aneddoti e ritratti che messi assieme divengono un’effigie della rivoluzione che portò gli economisti nei palazzi del potere e che decise che i mercati lasciati liberi dalle regole fossero la ricetta giusta per ogni stagione (The economist’s hour, False prophets, free markets and the fracture of society – Little Brown & Co). La figura più famosa di questa schiera di economisti è naturalmente Milton Friedman.

 

«La ragione per la quale volevo raccontare quella storia è perché credo che nel 2008 sia in qualche modo finita. Non che quelle teorie e il ruolo degli economisti siano svaniti, ma perché siamo entrati in un periodo nel quale il modello esistente che guidava il modo in cui governiamo e regoliamo l’economia ha mostrato tutti i suoi limiti anche a chi non voleva vederli. Proprio come negli anni 30 e all’inizio del ’70 siamo in un periodo tumultuoso in tutto il mondo e di perdita di fiducia nel modo in cui abbiamo gestito le cose, nei sistemi che abbiamo creato. Questa mancanza di fiducia ha ottime ragioni di essere, ma siamo ancora in mare aperto senza saper decidere cosa viene dopo. Mio intento era quello di porre questo passaggio in prospettiva storica e magari di dare qualche indicazione sulla strada da intraprendere».

Binyamin Appelbaum, come comincia questa rivoluzione?
Il primo capitolo del mio libro racconta la storia della fine della leva obbligatoria. Dopo la Seconda Guerra mondiale la leva divenne parte della normalità della vita americana, andare militari era un dovere civile e patriottico. Dai primi anni 70 comincia la ricchezza media accresciuta che implica che chi parte lascia spesso un buon lavoro, poi c’è l’opposizione al Vietnam e il numero di persone chiamate alla leva che cala, facendo crescere l’idea di un processo di selezione ingiusto (chi studia non parte, chi non studia parte). La scelta di abolire la leva non è dettata da queste ragioni ma viene dall’amministrazione Nixon sulla base di una teoria economica. All’inizio degli anni 60 alcuni economisti sostengono che la leva sia inefficace perché drena risorse, persone che potrebbero generare ricchezza con il loro lavoro vengono sottratte all’economia. Il secondo argomento è che un esercito professionale implica personale capace che non ha bisogno di addestramento. In pratica il mercato deve decidere chi farà il militare. Nixon sposa la teoria e crea un commissione popolata di economisti che fornisce un parere che poi il Congresso avalla. I militari erano contrari. L’abolizione rappresenta la messa al centro dell’efficienza economica come obbiettivo delle politiche pubbliche. Questa decisione e questo modo di pensare hanno presa in quel momento perché il boom post-bellico ha perso forza, c’è quella che chiamiamo stagflazione (crescita negativa e inflazione alta) e c’è la percezione diffusa che servano nuove idee su come governare l’economia. Ci sono anche dinamiche sociali profonde, c’è quella che Nixon chiamava la maggioranza silenziosa che guarda con sospetto alla spinta per i diritti civili e teme che l’eccesso di regole limiti le prerogative della proprietà privata. Quella parte di società reagì per ripristinare la centralità di proprietà e ricchezza. Con un certo successo. In questo contesto gli economisti ebbero la funzione di fornire la base intellettuale per la rivoluzione conservatrice e sono stati enormemente persuasivi nel farlo.


Dagli anni 80 c’è anche il senso che non esistano alternative...
Con il crollo dell’Urss questa idea assoluta di mercato si fa dogma perché (in teoria) è la dimostrazione sperimentale del fatto che gli economisti avessero ragione: due sistemi a confronto, uno ha stravinto. Una delle cose che si brandivano ai tempi era l’immagine satellitare della Corea, buia al Nord e illuminata al Sud, dicendo: “Non vorrete mica vivere al buio?”, il buio è il comunismo, la luce è il capitalismo. La lezione della caduta del comunismo è che meno regole e meno Stato sono la strada giusta, l’unica strada. E così negli anni 90 e 2000 arriviamo a una sorta di estremismo del libero mercato. La rivoluzione cominciata a fine ’60 segnalava dei problemi reali emersi nei decenni successivi al New Deal e al Dopoguerra in Europa, dagli anni 80 quella risposta viene portata all’estremo. Si dimentica insomma che le luci in Corea del Sud non sono frutto del capitalismo puro ma di un Paese in cui lo Stato giocava e gioca un ruolo importante e utile.


Negli anni 90 è la sinistra a sposare queste teorie.
Il primo ministro britannico Benjamin Disraeli diceva: “Politiche di sinistra, politici di destra”, intendendo che i conservatori erano più forti che mai quando sceglievano di implementare politiche liberali. Quel che è successo nell’ultima parte del 20esimo secolo e nella prima decade del secondo è un fenomeno uguale e contrario. Una parte importante della storia che racconto è quella che riguarda il consenso di certe politiche non da parte di coloro che naturalmente avrebbero dovuto adottarle, la destra, ma anche dalla sinistra. È stato così negli Stati Uniti, che con Clinton istituzionalizzano e cementano i risultati delle amministrazioni repubblicane che lo hanno preceduto, è successo in Francia, dove Mitterrand è stato enormemente importante nel farla finita con il socialismo tradizionale francese, non parliamo di Blair. Le idee neo-liberali in materia economica erano egemoniche, un monolite senza alternative e le differenze tra sinistra e destra sono minime. Perché succede? Darei due risposte. Quel che è successo negli anni 70 la fiducia della sinistra nelle proprie idee in materia economica svanisce. Gli intellettuali di sinistra si arrendono alla narrazione semplicistica della destra che spiega: “Lo Stato si deve fare da parte e mille fiori sbocceranno”. L’alternativa è un discorso complesso. La destra insomma stravince da un punto di vista della narrazione. Il successo, poi, produce altro successo e sul momento le cose sembrano funzionare bene, il comunismo crolla, il mercato trionfa. Come scrisse l’editorialista conservatore George Will (oggi un never-trumper scatenato), “l’Unione sovietica ha perso, l’università di Chicago ha vinto”. Il 2008 ha davvero posto fine a quelle certezze.


Trump ha seguito questa linea?
L’amministrazione Trump è una cartina di tornasole della situazione complicata nella quale viviamo. Ci sono elementi dell’approccio precedente, con l’idea che abbassare le tasse produca crescita, elementi di mercantilismo che producono l’uso dei dazi sulle importazioni come se il commercio fosse un gioco a somma zero nel quale o vinci o perdi, ci sono gli interessi delle corporation, che producono l’eliminazione di centinaia di regole. Ma è più somma di interessi e spinte che un’idea di politica economica. Gli economisti continuano a giocare un ruolo, ciascuno portando avanti le proprie idee, ma nel complesso si tratta di un gruppo che non è guidato dall’ideologia economica. Quel che conta, dal mio punto di vista è che l’amministrazione Trump è il segnale della fine dell’egemonia di certe idee.


Cosa cambia con Biden?
Il team Biden non è omogeneo. Alcuni dei suoi consiglieri vengono da una generazione cresciuta negli anni 80 e tendono a pensare che lo Stato debba svolgere un ruolo minimo e le politiche monetarie rimanere al centro. Ci sono poi consiglieri più giovani che hanno un approccio diverso secondo cui la crescita economica è meno importante di come la ricchezza prodotta viene distribuita. Un’economia che cresce, ma nella quale poche persone raccolgono la maggior parte dei benefici della crescita, non può essere l’obiettivo delle politiche governative. In America i salari stagnano da decenni e per far crescere i consumi occorre aumentarli perché una più equa distribuzione della ricchezza è la base per una società più florida. Sarà interessante osservare se e fino a che punto Biden e i democratici in Congresso decideranno di perseguire questa strada. E quanto capaci saranno gli economisti a proporre le loro idee come un’alternativa all’ideologia che ha dominato il quarantennio. Al fondo di tutto credo che il principale problema, dopo tanti anni di certezze su inflazione, monetarismo e tasse sia quello dello storytelling. La destra continua ad avere presa sull’immaginazione con la sua storia semplice per cui lo Stato è il problema e il mercato la soluzione. C’è una storia alternativa, per cui l’idea che Stato e mercato siano forze contrapposte è intrinsecamente assurda, dobbiamo governare i mercati e la questione è come lo facciamo nel migliore dei modi. Ma i democratici e gli economisti che li sostengono devono migliorare molto nel raccontare la loro storia e molto del successo dell’amministrazione Biden in materia di economia, credo, si baserà proprio sulla loro capacità di farlo.

Pubblicato il

04.03.2021 14:40
Martino Mazzonis