C’è un mondo reale in cui ci si ammala di lavoro, si cancellano impieghi, si soffre la precarietà e le retribuzioni sono talvolta offensive e spesso insufficienti, in cui le salariate e i salariati, dissanguati dal rincaro delle pigioni e dalla spesa per l’assicurazione malattie, fanno sempre più fatica a tirare la fine del mese. Un mondo in cui la qualità della vita è intaccata anche da ritmi e da un’organizzazione del lavoro incompatibili con le risorse mentali e fisiche delle persone e con il loro naturale bisogno di una dimensione familiare e privata.

C’è poi una realtà, quella della politica e in particolare del Parlamento, che a queste problematiche dovrebbe cercare di dare soluzioni, in cui si va nella direzione esattamente opposta: quella di aggravare ulteriormente la situazione.

 

Basti pensare agli incessanti attacchi della maggioranza borghese contro la legislazione sul lavoro con i suoi piani di deregolamentazione e di cancellazione delle già scarse garanzie. Molti sono gli atti pendenti in questo inizio di 2025 che minacciano i diritti dei salariati e che saranno al centro di importanti battaglie politiche e sindacali nel corso dell’anno.

 

Una è certamente quella contro l’ulteriore liberalizzazione del lavoro domenicale, che si sta confezionando sotto la cupola di Palazzo federale: proprio l’altro giorno la Commissione dell’economia del Consiglio nazionale, ha dato il via libera a un’iniziativa cantonale di Zurigo che mira ad aumentare sensibilmente il numero di domeniche in cui è possibile occupare senza autorizzazione i lavoratori nei commerci, portandolo dall’attuale massimo di quattro a 12 domeniche all’anno.

 

Un altro tema caldo sarà il principio del salario minimo, che si sta imponendo, per decisione popolare, in un numero crescente di Cantoni e Città (il 9 febbraio si voterà a Basilea Campagna e Soletta). Un principio che però, nonostante la piena legittimità democratica di queste leggi cantonali e le esperienze positive sin qui maturate, è nel mirino della maggioranza borghese del Parlamento federale, che ha adottato un provvedimento (peraltro lesivo dell’autonomia dei Cantoni) per consentire la non applicazione dei salari minimi legali nel caso in cui dei contratti collettivi prevedano retribuzioni inferiori (clausola già presente nella legge ticinese e che un’iniziativa pendente del PS mira a cancellare). Un chiaro tentativo di limitare l’efficacia delle normative e per spezzare la dinamica positiva che si è innescata.

 

E nel paese dove si lavora di più al mondo, la stessa maggioranza politica sostiene pure una modifica di legge per estendere la durata della giornata lavorativa da 14 a 17 ore, ridurre i tempi di riposo per chi lavora da casa, così come liberalizzare il lavoro serale e domenicale.

Con tutte le conseguenze che ciò comporterebbe per la salute fisica e psichica.

 

È un elenco certamente non esaustivo degli attacchi in atto, che vanno a sommarsi alle incognite, soprattutto in materia di protezione dei salari, legate ai cosiddetti Accordi bilaterali III con l’Unione europea frutto dell’intesa annunciata dal governo in dicembre. In gioco vi è la salvaguardia dei livelli retributivi in Svizzera, paese con un costo della vita tra i più alti in Europa.

 

Ma ancor prima di decidere sulle future relazioni con Bruxelles, il popolo svizzero sarà chiamato a esprimersi sull’insidiosa iniziativa dell’UDC “No a una Svizzera da 10 milioni”. Una proposta estremista, demagogica e xenofoba, che mira a dividere i lavoratori e a cancellarne i diritti perché promuove il dumping salariale e sociale. E che andrà combattuta con tutte le forze, al pari delle altre sfide iscritte nell’agenda di questo 2025.

Pubblicato il 

23.01.25
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