Pur se non è affatto consueto iniziare la recensione di un libro con una dedica, lo faccio pensando a Piero, la guida d’una importante agenzia turistica italiana, che mi accompagnò con un gruppo di amici in un viaggio in Libia. Guida tanto affabile e premurosa, quanto abissalmente ignorante dei (mis)fatti commessi nel Paese africano dagli italiani. Piero, macroscopico esempio di quanti coltivano “il mito dell’italiano buono, portatore di civiltà”. È a tutti questi, come si legge nella seconda di copertina che si rivolge Genocidio in Libia*, il libro di Eric Salerno, edito da Manifestolibri. Si tratta di una riedizione (il saggio era uscito una prima volta nel 1979 per i tipi della SugarCo) arricchita con un capitolo dedicato alle recenti vicende della Libia di Gheddafi, in particolare nelle relazioni con l’Italia. Una riedizione quanto mai preziosa in un’Italia che a colpi di “libri neri” afferma di voler perseguire la verità storica su una serie di nefandezze, vere o presunte, ma che non riesce a rileggere le proprie, di nefandezze. Genocidio in Libia tratta, come recita il sottotitolo, delle atrocità commesse nell’arco di un ventennio (tanto necessitò al colonialismo italiano per aver ragione della resistenza libica) dal 1911, anno dell’invasione, fino al 1931, anno in cui, con il massacro di Cufra, le truppe italiane poterono dire di controllare infine l’intero territorio. È a Cufra che secondo fonti arabe, gli italiani, precursori dei generali argentini, presero una quindicina di prigionieri, «…li hanno fatti salire sugli aeroplani e in presenza dei loro parenti e congiunti, li hanno lasciati cadere da un’altezza di quattrocento metri, ed ogni volta che uno precipitava erano applausi, battimani e sghignazzi da parte di ufficiali e soldati…» (pag 44). Tracce ufficiali dell’episodio, scrive Salerno, non esistono. Ma si può aggiungere che una testimonianza di questo fatto è rintracciabile nel libro Le chemin de La Mecque**. «Le lendemain il ordonna de prendre dans un avion plusiers de nos anciens et de nos oulémas et ceux-ci furent précipités du haut des airs pur s’ecraser sur le sol…» (pag 308). A parlare, in questo caso, è un superstite della battaglia di Cufra, una testimonianza raccolta poco dopo gli eventi. A proposito, Le chemin de La Mecque, un affascinante viaggio fisico e spirituale all’interno dell’Islam compiuto da un cittadino austriaco divenuto musulmano, non è mai stato tradotto in italiano in quanto da parte italiana si pretendeva che venisse tagliato il capitolo dedicato alla resistenza libica. Nello stesso modo, come ricorda Salerno, nelle sale cinematografiche italiane non è mai stato proiettato il film Il Leone del deserto, del 1979, dedicato all’eroe nazionale libico Omar el Muktar (impiccato dalle truppe coloniali l’11 settembre del 1931). Un film*** con un cast eccezionale (fra i tanti, Anthony Quinn, Oliver Reed, Irene Papas), la cui unica colpa, agli occhi, miopi, dei censori italiani sta nel fatto di aver narrato l’epopea della guerra di liberazione e i crimini dell’occupazione. E d’averlo fatto in modo sostanzialmente corretto. Eric Salerno, avvalendosi di testimonianze da lui registrate, di documenti d’archivio, di saggi ed articoli di quotidiani e riviste, ricostruisce quegli eventi evidenziando come quanto accadeva sul terreno avesse una sua precisa ragione nella concezione dell’occupazione elaborata a Roma. La barbarie italiana si manifesta sin dall’inizio (resoconti di massacri di donne e bambini, di fucilazioni in massa sono dei primi mesi di guerra), ma è con l’Italia fascista che la Libia diventa terra di pura conquista militare e i libici una popolazione “non indispensabile”, anche perché Mussolini vuole inviare nella colonia, due-tre milioni di contadini italiani. Il diffuso razzismo dell’occupante è d’aiuto nell’ardua impresa che porta al genocidio, n’è anzi un elemento essenziale. In Libia, l’Italia sperimenta per la prima volta nella storia l’arma aerea. Gli aerei distruggono i villaggi, mitragliano persone e bestiame e infine, nella seconda metà degli anni Venti, irrorano cose e persone con l’iprite, un altro primato italiano. Gas usati in modo sistematico, tanto che, ricorda Eric Salerno, specialisti vennero incaricati di verificare «gli effetti immediati prodotti dalla morte chimica, ma anche per conoscere gli eventuali effetti ritardati su coloro che venivano sfiorati dai gas». I libici vengono uccisi in modi diversi: nelle battaglie, nella repressione e nei rastrellamenti, nei villaggi dati alle fiamme, ma anche, e in modo massiccio, con le deportazioni di massa, con donne, bambini, anziani sradicati dalle loro case avviati in zone desertiche (chi nella marcia cade, viene fucilato sul posto), nei campi di concentramento, dove si muore di inedia. Una popolazione cui non viene lasciata via di scampo. Per creare terra bruciata attorno alla guerriglia, vengono distrutte le colture, abbattuti gli alberi, devastate le oasi, si uccide il bestiame, a cominciare dai cammelli, a centinaia di migliaia. Sono crimini di ieri come di oggi. I guerriglieri libici vengono considerati terroristi, sono trattati come “nemici combattenti”, il loro credo è sbeffeggiato, il Corano profanato. C’è chi cerca di riportarli alla “vera Fede” e non mancano denunce di casi di bambini sottratti ai genitori per essere battezzati. Quante furono le vittime dell’occupazione? Non è possibile stabilirlo con esattezza. Mancano dati. La cifra ipotizzata di mezzo milione, annota Salerno, è forse esagerata, ma non è fondamentale conoscere la cifra esatta, quando si sa che c’era la volontà di decimare. Ma l’Italia non pare disposta a riconoscere le proprie colpe, a formulare delle scuse, come suggerito in dicembre dal colonnello Gheddafi. Quali scuse si possono pretendere quando, come ricorda Salerno, Gianfranco Fini, l’attuale ministro degli esteri, meno di un anno fa ebbe a dichiarare, parlando di colonialismo: «almeno in Libia, gli italiani hanno portato, insieme alle strade e al lavoro, anche quei valori, quella civiltà, quel diritto che rappresenta un faro per l’intera cultura, non soltanto per la cultura Occidentale» (pag 11). E allora, caro Piero, scusa per il mio incipit; cosa poter pretendere da te, che cerchi di guadagnarti la pagnotta scarrozzando turisti e viaggiatori spesso petulanti e irritanti, se questa è la lezione che ti giunge dall’alto? * Genocidio in Libia, le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana (1911-1931), di Eric Salerno, Manifestolibri, 2005. ** Le chemin de La Mecque, di Muhammad Asad, Fayars, I ed. 1976. *** Il film, di Mustafa Akkad, dovrebbe essere sempre disponibile in vhs in lingua araba e/o inglese.

Pubblicato il 

17.06.05

Edizione cartacea

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