Che cosa rimane dell’immenso sacrificio consumato oltre cinquant’anni fa nei campi di concentramento nazisti? Immagini, fotografie. Quelle scattate dai liberatori e quelle della propaganda nazista: una confusa iconografia dell’orrore. Ora, il Fotomuseo di Winterthur tenta con una speciale mostra di trattare questo materiale illustrativo da un punto di vista critico ed analitico. Si è tanto parlato, dal secondo dopoguerra fino ai nostri giorni, dell’importanza di non dimenticare. La teoria fondata sul principio dello "shock pedagogico" dice che le immagini terribili delle atrocità compiute dai nazisti non possono essere relegate negli archivi: vanno sempre riproposte per ricordare ai giovani in quali abissi di malvagità può precipitare l’uomo. Ma in realtà, che cosa rimane nella nostra memoria collettiva? Un’iconografia stereotipata: mucchi di corpi macilenti, visi emaciati dallo sguardo impenetrabile, filo spinato, torri di guardia. Non sono immagini false, ma sono certamente confuse. E comunque non costituiscono una buona base per capire cosa veramente accadde e prendere coscienza di quel dramma. Spesso quelle fotografie vengono pubblicate senza precise indicazioni sui fatti che rappresentano, sul luogo e la data in cui furono scattate, sull’identità dell’autore. A queste immagini presentate come anonime icone dell’orrore vengono spesso affiancate quelle ingannevoli che gli stessi aguzzini scattavano, ma da ben altro punto di vista ed a scopi di propaganda. La mostra curata da Clément Chéroux e Pierre Bonhomme attinge da questo patrimonio fotografico con grande attenzione ed estrema cura, per offrire al visitatore uno strumento oggettivo di valutazione. All’inizio del percorso espositivo, per esempio, vengono proiettate separatamente, ma su due schermi affiancati, le fotografie che facevano i nazisti e quelle che risuscivano a scattare le loro vittime. Poi il materiale viene presentato suddiviso per periodi cronologici. Il primo periodo, dal 1933 al 1945, mostra la diversità tra campi di concentramento e campi di sterminio, la situazione prima e durante la guerra, le differenze tra le varie categorie di prigionieri (ebrei, zingari, oppositori del regime, criminali comuni, omosessuali, testimoni di Geova, eccetera). Si tratta in gran parte di foto scattate dai nazisti. Qui si vede come essi adoperassero la fotografia nei campi di concentramento: per reportage di propaganda, per studi antropologici, medici, amatoriali. Poi arriva la liberazione e la scoperta dell’orrore. Qui viene sottolineata la differenza tra le immagini riprese dai fotografi militari e quelle scattate dai giornalisti. I primi erano preoccupati soprattutto di documentare le atrocità, di costituire prove per i futuri processi agli aguzzini: mostrare i testimoni (la popolazione civile obbligata ad andare a vedere, le autorità in visita), le procedure militari d’accertamento, le strutture dei lager, gli impianti di cremazione, e così via. Diverso, invece, il compito dei reporter civili, che dovevano ovviamente soddisfare le esigenze dell’attualità: mostrare il fatto, ciò che si vedeva, i mucchi di cadaveri, i resti carbonizzati, i sopravvissuti scheletrici e smarriti, i tedeschi costretti a seppellire i morti, eccetera. In ogni caso, quasi tutte le foto esposte sono state tratte dai negativi originali, poiché molte di esse vennero diffuse in versioni manipolate. L’ultima parte dell’esposizione mostra come la fotografia si è occupata dopo il 1945 di quei luoghi di sofferenza. Sono immagini dei campi di concentramento oggi: vuoti, puliti, fotografati seguendo una sorta di criterio estetico dell’angoscia. Anche se queste immagini non si riferiscono più agli avvenimenti, sono importanti perché – ha detto uno dei curatori, Clément Chéroux – documentano la memoria che ne serbiamo: sono "la prova che le giovani generazioni continuano a cercare ancora, la prova che la memoria è ancora viva".
"Die Lager. Bildgedächtnis der Nazi-Konzentrations- und Vernichtungslager (1933-1999)", Fotomuseum di Winterthur, Grüzenstrasse 44, e resterà aperta fino al 30 giugno 2001.
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