I camalli in lotta contro le navi della morte

Viaggio a Genova dove un collettivo di lavoratori portuali combatte contro il transito in porto dei carichi di armamenti destinati all’Arabia Saudita e alla sua guerra in Yemen

Genova e il suo porto sono un centro logistico del traffico internazionale di armamenti. Ma c’è chi dice no. Sono gli attivisti del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (Calp) che si battono contro il transito in rada delle navi cariche d’armi inviate verso dei teatri bellici. Una lotta dura, che solleva molte verità nascoste e dà fastidio, tanto che alcuni militanti sono finiti sotto indagine. Noi siamo scesi in Liguria per parlare con loro di questa battaglia che li ha resi scomodi, ma anche fieri.

 

«Chi guarda Genova, sappia che Genova si vede solo dal mare» cantava Ivano Fossati. Noi invece, Genova, la guardiamo dal quinto piano della sede della Compagnia unica lavoratori merci varie, per tutti la Culmv. È una storica cooperativa di operai portuali – i cosiddetti camalli – che ogni giorno sono chiamati a coprire i picchi di lavoro di carico e scarico delle navi. «Rispondiamo a sette chiamate giornaliere di quattordici terminal privati e forniamo manodopera per tutte le professionalità portuali che ci vengono richieste» ci spiega Antonio Benvenuti, console della Culmv i cui soci-lavoratori sono più di mille. Dalle finestre del suo fumoso ufficio scorgiamo montagne di container colorati che vengono caricati dalle gru su navi alte come palazzi. Il porto ligure parte dal centro città e si estende a ponente per oltre dieci chilometri fino a Voltri. Da Genova transita di tutto: materie prime, macchinari, turisti, ma anche armi, esplosivi e munizioni. È da tempo che i portuali s’imbattono sui ponti o nelle stive delle navi in mezzi militari. A lungo, però, questi flussi non erano contestati in maniera aperta. Qualche foto sui social o delle scritte sui muri: l’indignazione finiva lì. Tutto cambia un paio di anni fa.

 

Quel carico, da qui, non parte

 

Maggio 2019. Carica di armi ed esplosivi la Bahri Yanbu è in rotta su Genova. A dare l’allarme sono i portuali di Le Havre che, con l’appoggio del sindacato Cgt e di un gruppo di associazioni, hanno impedito qualche giorno prima l’imbarco di alcuni cannoni francesi destinati all’Arabia Saudita. La nave è carica di altro materiale bellico imbarcato negli Stati Uniti e in altri porti europei. A Genova, l’appello è raccolto dal Calp, un gruppo attivo da una decina d’anni nel solco di una tradizione di autonomia operaia e composto da diversi lavoratori del porto, dai dipendenti dei terminal ai soci della Culmv, perlopiù delegati sindacali. «Quando vediamo esplodere un missile nei teatri di guerra è l’ultimo atto di una catena. Noi abbiamo deciso di bloccare uno dei suoi anelli, quello legato alla logistica nei porti» ci spiega José Nivoi, uno dei dirigenti nazionali del coordinamento porti per il sindacato Usb nonché militante e portavoce del Calp. È lui che ci farà da guida in questi giorni sotto la Lanterna.

 

La prima tappa è un ristorante dove chi lavora in porto viene in pausa pranzo. La ragione è evidente: da Bibi il cibo è buono, abbondante e a prezzi popolari. Mentre mangiamo le classiche linguine al pesto parliamo con Romeo, Luca e Matteo, tutti membri del collettivo, che ci spiegano come è andata a finire la faccenda partita da Le Havre. Allarmati dai colleghi francesi, i portuali genovesi scoprono che proprio da Genova, sulla Yanbu, doveva essere imbarcato del materiale sospetto: dei generatori dalla colorazione mimetica prodotti dalla Teknel di Roma e destinati alla Guardia nazionale saudita. Per le autorità portuali e l’agenzia marittima Delta che assiste la nave si tratta di equipaggiamento civile. L’inchiesta autonoma dei lavoratori, grazie alle foto con i numeri di serie e ai riscontri di alcune associazioni pacifiste, provano il contrario: si tratta di materiale ad uso bellico destinato a quello che di fatto è un corpo militare d’élite impiegato dalla monarchia saudita nella guerra in Yemen. Si è così organizzata una manifestazione di protesta, appoggiata da uno sciopero politico decretato dal sindacato Cgil che di fatto ha impedito che quel materiale fosse imbarcato. Quella prima azione, è stata un gran successo: «I lavoratori sono riusciti a bloccare questo meccanismo e a dare solidarietà attiva a un popolo terzo, in questo caso quello yemenita» ci racconta José Nivoi.

 

Le sei gemelle saudite

 

Sulla rada un cartello indica il divieto a portare pistole e coltelli: «È il colmo, in un posto dove passa materiale da guerra» ci dice ridendo il militante del Calp. Siamo di fronte al ponte Etiopia, al terminal Gmt gestito dalla società olandese C. Steinweg. È qui che di solito attraccano le navi della Bahri, la compagnia nazionale saudita, tra i più grandi armatori del mondo.

 

Da quel primo successo del maggio 2019, le Bahri hanno continuato a scalare regolarmente a Genova. Oltre alla Yanbu, la compagnia possiede altre cinque imbarcazioni del tipo ConRo, un sorta di ibrido tra portacontainer e traghetto, perfette per il trasporto di materiale bellico. Ogni venti giorni circa, una di queste “sei gemelle della morte” fa rotta su Genova in arrivo dai porti della costa est degli Stati Uniti dove è stata caricata in mezzi militari. A volte la città ligure serve anche da scalo logistico per il viaggio di ritorno: le armi utilizzate in Yemen vengono rispedite verso le fabbriche americane per la manutenzione.

 

Dal maggio 2019 nessun armamento è stato imbarcato da ponte Etiopia. Diverso, però, è il discorso legato a quanto le navi già trasportano: «Malgrado nei terminal e nelle stive la sorveglianza è molto più rigida, siamo riusciti a scoprire e fotografare nuovi carichi di armi e di esplosivi, questi ultimi riconoscibili sul ponte perché vi è l’obbligo di specificare i container con appositi pannelli» ci spiega sempre José Nivoi.

 

Ad ogni attracco sospetto, le navi saudite sono accolte da presidi di protesta. Le rotte sono infatti monitorate tramite un’apposita applicazione che permette ai lavoratori di organizzarsi. Una nave – la Bahri Tabuk – è passata da qui proprio qualche giorno prima del nostro arrivo. Questa volta, però, i militanti del Calp hanno fatto basso profilo. Il motivo: l’attesa della risposta da parte delle autorità portuali in merito a un esposto inoltrato dal sindacato Usb alla luce del mancato rispetto non solo delle norme in materia di commercio – la legge italiana vieta il transito di armi verso paesi in conflitto – ma anche di sicurezza del porto e dei quartieri prospicienti in merito al trasporto di esplosivi. Ad inizio settembre, presso la prefettura è stato aperto un tavolo con le parti sociali proprio sul problema delle Bahri. Un chiarimento ufficiale è atteso nei prossimi giorni.

 

Il fronte siriano e Cgil si defila

 

Le foto mostrano i blindati Hercules, destinati al recupero dei mezzi corazzati distrutti o danneggiati sul campo di battaglia. Sono stati scovati a inizio 2020 nella stiva della Bahri Abha, diretta verso lo scalo turco di Iskenderun, il più vicino al territorio siriano. Il sospetto che questi mezzi fossero poi utilizzati dall’esercito di Erdogan nell’offensiva lanciata qualche settimana prima in Siria era quindi molto forte. In questi anni i camalli hanno scoperto e denunciato nuove rotte. Oltre che verso l’Arabia Saudita, le navi saudite cariche di materiale bellico fanno rotta anche verso l’India e, sempre più, verso la Turchia. Il boicottaggio lanciato dal Calp proprio a seguito della scoperta della rotta turco-siriana, però, non trova questa volta l’appoggio della Cgil che assume una posizione passiva e che, anche per questo, vedrà fuoriuscire alcuni sui membri e delegati che passeranno al sindacato Usb.

 

«Nel 2019, il nostro appoggio è stato decisivo e abbiamo ottenuto il risultato sperato: che a Genova non s’imbarchi questo tipo di materiale» ci spiega Enrico Ascheri, delegato per i porti per la Cgil. Ci accoglie nel suo ufficio presso una grande sede di quello che rimane il principale sindacato tra i camalli genovesi. Sulla questione delle armi in transito, il sindacalista si dice con le mani legate: «Quando abbiamo indetto lo sciopero nel 2019 c’era una situazione diversa perché la Yanbu stava per caricare a Genova delle merci che avevano un utilizzo anche militare. Da quel momento fino ad oggi la nave quando attracca a Genova carica solo merce di tipo civile e per questo non ci sono le ragioni per organizzare uno sciopero». Una posizione, quella della Cgil, che ha condizionato anche i lavoratori della Culmv: «Io se non c’è uno sciopero giustificato la gente la devo mandare a lavorare», ci dice nel suo ufficio il console della compagnia, Antonio Benvenuti. Il quale aggiunge di «non essere così illuso che un’iniziativa del genere possa cambiare il mondo» dato che «questa è una partita che deve essere decisa non di certo dai portuali ma su più alti livelli».

 

Le due facce della Liguria

 

Per capire quanto sta succedendo in porto occorre capire Genova e la sua storia. Bisogna immergersi nel suo centro storico e in quartieri come Sanpierdarena, respirarne l’aria e assorbirne le contaminazioni. Genova è internazionalista, Genova è antifascista. Dal suo porto, nel giugno del ’60, uscirono i lavoratori che bloccarono il comizio fascista del Movimento sociale italiano. Durante il conflitto in Vietnam, i camalli impedirono il transito di navi da guerra e caricarono a loro spese una nave di aiuti e rifornimenti per la popolazione vietnamita. Ma Genova, e la Liguria, sono anche terra dell’industria dell’armamento: dalla Fincantieri che fa navi militari e sommergibili a Leonardo che produce radar e missili, passando per Oto Melara che fabbrica cannoni e blindati fino alla Piaggio che sta sviluppando droni militari. Oltre che, naturalmente, dell’industria marittima che appoggia il trasporto delle barche saudite. Una vera e propria gallina dalle uova d’oro per l’agenzia Delta: «Delta ha registrato un incremento del fatturato grazie a un maggior volume di merci trasportate con il vettore Bahri» si legge nella relazione 2019 del gruppo Gastaldi, la holding genovese che controlla l’agenzia. Per questo l’azione dei portuali ha dato fastidio e, non a caso, il governatore ligure Giovanni Toti ha criticato la campagna sostenendo che in questo modo si danneggia il porto costringendo una società a rivolgersi ad altri scali.

 

«Ovviamente i traffici d’armi proprio perché sono traffici particolari rendono molto e attirano gli interessi di chi non ha scrupoli o se ne fa meno. Denunciando la Delta che fa affari con le navi saudite è stata sollevata una contraddizione anche con i lavoratori che lavorano per questa agenzia i quali si sono pronunciati contro i compagni portuali che contestavano le navi» ci spiega Riccardo Degli Innocenti. Settant’anni, il baffo che resiste dagli anni ’60, questo militante pacifista, conosce bene il mondo marittimo per averci lavorato. Lo incontriamo dalle parti di Caricamento dove il centro storico si getta verso il mare. Chiarisce subito che non siamo di fronte a traffici oscuri. Ciò che è quasi peggio: «Nel caso delle navi Bahri tutto appare ufficiale, legale e trasparente. È un esempio di come la catena d’approvvigionamento connette alcuni dei principali siti di produzione d’armi del mondo, dove si fabbrica materialmente la moderna guerra industriale, con i principali teatri di guerra dove le armi distruggono e sono a loro volta distrutte ricreandone nuova domanda». Degli Innocenti è uno dei fondatori dell’Ong Weapon Watch, nata a Genova a seguito proprio della lotta dei portuali. L’associazione raccoglie informazioni a partire dai rapporti che ha coi portuali che, grazie al loro lavoro, osservano il passaggio delle navi e scoprono traffici che altrimenti non si sarebbe in grado di conoscere. L’ultima scoperta è dello scorso mese di luglio: «Guarda – ci dice mostrandoci una fotografia – sono degli elicotteri americani destinati alla monarchia saudita che avevano sulla pancia la scritta, in inglese e arabo, “Dio vi benedica” il che c’è sembrata una macabra provocazione».

 

Una lotta che va oltre le armi


Un buon ristorante, una sala conferenze, dei tavoli da biliardo e persino un campetto da calcio: siamo a pochi passi dalla Lanterna, al Circolo autorità portuali, gestito da pensionati e punto di ritrovo per chi lavora o ha lavorato in porto. Qui pranziamo con Riccardo, un altro membro del Calp, di cui indossa fiero la maglietta con il logo, un’ancora, un martello e una stella: «L’ancora perché rappresenta un po’ il mare, il nostro orizzonte quotidiano; il martello perché rappresenta uno strumento che fa parte della classe operaia; la stella rossa, perché come il mare... è il nostro orizzonte». Riccardo lavora al terminal crociere ed è una sorta di coscienza politica del Calp. È da sempre in prima linea in questa battaglia di cui sta già pagando le conseguenze: con José e altri membri del Calp è infatti indagato dalla Digos. «È una lotta che dà fastidio, al Governo, all’industria, ma anche a certi comparti lavorativi, ma che comunque andava fatta – ci dice – anche perché per molti di noi portuali è un segno d’orgoglio che ci ha riportato protagonisti». La partita va oltre la questione del traffico di armi: «Il porto è la nostra casa, ci viviamo 365 giorni all’anno. Sappiamo come muoverci e per questo facciamo paura. Tutti hanno capito quanto possa essere pericolosa questa nostra lotta. Si sa che se la vinciamo si potrà poi ragionare su un porto diverso, con condizioni diverse su diritti migliori e su condizioni salariali migliori».

 

Il nostro viaggio si ferma qui, ma non così questa storia. Nel porto la fiamma è ormai accesa e illumina l’ipocrisia dell’industria della guerra. Lo dice la storia: da Genova il mondo operaio ha detto no al fascismo e alle ingiustizie. E dirà no, e no ancora, al commercio della morte.

 

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«L’Italia ci persegue, il Papa ci sostiene»

 

Il nostro incontro con i membri del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (Calp) comincia già sul treno in partenza da Lugano. Qui incontriamo il portavoce José Nivoi e il suo collega Eros. Sono di ritorno da Zurigo dove sono andati a presentare la loro iniziativa a un festival. L’azione contro le navi saudite Bahri ha suscitato molta simpatia, anche al di fuori delle frontiere italiane: «In Svizzera c’è molto interesse rispetto alla lotta che abbiamo portato avanti in questi anni» ci dice José. Eros, porta fiero una delle magliette del collettivo con la scritta sulla schiena “Associazione a delinquere”: «È un po’ una presa in giro per quella che è la repressione che subiamo da parte delle autorità italiane» ci dice questo camallo, figlio di camallo e con i figli anch’essi camalli. «Abbiamo subito una fortissima repressione intimidatoria da parte dello Stato. Il 24 febbraio scorso, alle cinque e mezza di mattino, citofonano a cinque di noi considerati le teste del Calp e di Genova antifascista e ci sequestrano computer, cellulari e documenti». La Digos, un ente speciale della polizia che di solito si occupa di terrorismo o reati di natura politica, ipotizza il reato di associazione a delinquere per i membri del Calp. In realtà i reati contestati sono bagatellari e legati ad alcune manifestazioni e presidi dove sono stati lanciati dei fuochi d’artificio. «Non abbiamo paura: siamo dalla parte della ragione e non facciamo male a nessuno» ci spiega ancora José.

 

Certo è che, l’azione del Calp dà fastidio, in porto e non solo: «Mi ricordo il giorno in cui la prefetta dell’epoca ci disse così: guagliò stateve accuorte! Non capimmo subito cosa voleva dire, lei invece aveva capito che andare a toccare certi interessi economici , ma anche geopolitici e di rapporto dell’Italia con potenze quali gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e la Turchia poteva essere rischioso» ci dice a Genova Riccardo, altro militante del Calp. «Non è che ora il Governo degli Stati Uniti o dell’Arabia Saudita siano troppo impressionati da quello che succede a Genova, non siamo così presuntuosi» ci dice Riccardo Degli Innocenti, dell’Ong Weapon Watch. Il quale aggiunge che «il potere non gradisce di essere messo di fronte a certe contraddizioni».

 

In questa situazione, un po’ per scherzo un po’ no, i membri del Calp hanno deciso di scrivere al Papa: «Siamo tutti atei, comunisti o anarchici, ma abbiamo pensato che dato che lo Stato italiano è sempre Stato succube del Vaticano, forse il Pontefice avrebbe potuto fare qualcosa» spiega José Nivoi. Così, tramite un giro di conoscenze a Roma, lui e altri tre membri del collettivo sono stati chiamati per un’udienza da Francesco. Nessuno, se l’aspettava. Lo scorso 23 di giugno eccoli quindi a San Pietro a stringere la mano al Papa: «Ho riconosciuto la bontà nel suo sguardo e quando gli ho detto che ero uno dei portuali che avevano bloccato le navi, Francesco mi ha dato una pacca sulle spalle e detto bravi, complimenti e si è messo a ridere; poi mi ha raccontato una barzelletta sulla tirchiaggine dei genovesi» ricorda con affetto José.

L’incontro è stato molto importante da un punto di vista simbolico: «Ricevere i suoi complimenti nel mentre lo Stato italiano ti persegue come se fossi un terrorista ha un valore politico non da poco». D’altronde lo stesso Pontefice lo ha ribadito anche in un recente discorso dove ha riconosciuto il collettivo dei lavoratori portuali genovesi, proprio nelle circostanze di questa lotta, di averci messo la faccia e di aver dimostrato di non essere ipocrita come invece le istituzioni e il mondo economico in Europa dimostrano di essere dichiarando la pace e poi facendo affari con la guerra.

 

Foto: Alberto Campi / We Report

 

 

 

Pubblicato il

24.09.2021 13:42
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