Urla da stadio: “Fuori, fuori”. Fuori Bersani, D’Alema, Speranza e tutti i gufi del No. L’uomo solo al comando ha tirato fuori il drappo rosso (il colore serve solo per la metafora) e i tori del Partito di Renzi (Pdr) si sono scatenati. I buttafuori salvano solo Cuperlo che si è prestato al tipico ruolo dell’ascaro (ascari erano i soldati eritrei mercenari che combattevano al fianco delle truppe d’occupazione italiane nell’Africa orientale), cofirmando con gli ufficiali renziani un documento di fumose promesse per la modifica della legge-truffa elettorale in cambio del Sì al referendum. Chi, sentendo dire Pd o centrosinistra, pensa agli eredi del vecchio Pci sbaglia di grosso: il Pd è un partito di mutanti che sta completando la sua metamorfosi cercando di mettere alla porta ogni residuo – foss’anche contraddittorio, moderato, pavido – di sinistra. Il processo è in atto da alcuni anni, ma in occasione della Leopolda ha fatto un balzo in avanti, al punto che un uomo mite come Bersani è arrivato ad accusare il Pdr di arroganza (del capo) e sudditanza (al capo), aggiungendo: “il Pd è casa mia”, “ma se Renzi dice fuori, fuori bisognerà pur rassegnarsi”. Si parla di scissione, ma tutto dipenderà dall’esito del referendum sullo snaturamento della “Costituzione più bella del mondo”, come la chiamava Benigni prima di essere folgorato sulla via di Firenze. Se vincesse il Sì, probabilmente Renzi butterebbe i dissidenti fuori casa; se vincesse il No, i dissidenti del Pd (e non solo loro) chiederebbero le dimissioni di Renzi. Fatto sta che il Pd per come l’abbiamo conosciuto non esiste più. Resta un coacervo neoliberista nei contenuti e stalinista nelle regole di vita interna. E dire che in Italia ci sarebbero cose decisamente più serie di cui un governo responsabile dovrebbe prioritariamente occuparsi. La crisi economica e occupazionale di cui non si vede la fine, e quella luce in fondo al tunnel su cui Renzi sproloquia è il faro di un treno lanciato ad alta velocità contro di noi. E ci sono le emergenze di un paese il cui territorio è squassato dall’incuria e dalla cecità dei governanti e raso al suolo da un terremoto che continua ad accanirci sui borghi dell’Appennino. Pensate che solo qualche giorno prima che il sisma tornasse a colpire, Renzi non si è limitato a confermare le spese per Tav, grandi opere e bombardieri Usa F15, ma è arrivato a promettere il ponte di Messina per spingere i riottosi siciliani a votare Sì al referendum. Intanto crollano scuole e ospedali, case e chiese, e le opere d’arte che sarebbero la ricchezza d’Italia finiscono sotto le macerie. Il terremoto per Renzi è merce di scambio con l’Ue per strappare flessibilità aggiuntiva da giocarsi in regalie preelettorali, più che per mettere in sicurezza case, scuole e ospedali. Renzi alza la voce contro Juncker nel tentativo di lisciare il pelo al diffuso sentimento antieuropeo, e Juncker risponde da burocrate liberista con un linguaggio (“degli attacchi di Renzi me ne frego”) che richiama Mussolini e offende terremotati, migranti e volontari. Una lotta fra totani, più che fra titani.
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