Quando il motore della Fiat 124 cominciò a balbettare, Fausta Dotta e i suoi quattro passeggeri raggelarono. La conducente rallentò e fermò l’auto sulla corsia di emergenza dell’autostrada Como-Milano. Mancavano pochi chilometri all’entrata in città. Il cavo acceleratore si era rotto. Di chiamare il soccorso stradale neanche a parlarne. Non si poteva correre il rischio di farsi scoprire. Quello era un viaggio da clandestini, intrapreso un paio di giorni dopo l’arrivo degli esuli in una pensioncina di Como dov’erano stati parcheggiati per prendere tempo. Si aveva avuto il sentore che qualcuno all’aeroporto avesse avvisato in frontiera dell’imminente passaggio in Ticino degli “illegali” cileni, quindi era meglio posticipare i piani. «Hai un pezzo di corda?», chiese ad un tratto uno dei passeggeri alla conducente. «No», rispose Fausta. E mentre l’uomo borbottava fra sé e sé qualcosa del tipo «ma come si fa a non avere una corda in una macchina?», uno dei suoi compagni di viaggio si tolse la stringa da una scarpa e con questa legò il pedale del gas alla farfalla del carburatore. «Ora tieni il piede sull’acceleratore e non lo molli più fino a Milano», disse a Fausta. La riparazione di fortuna funzionò. Il gruppetto arrivò una mezz’oretta dopo alla stazione di Milano Centrale dove ad attenderli c’erano tre accompagnatori. Mollata la Fiat 124 nel parcheggio, Fausta Dotta, i quattro cileni e i passatori salirono su treni diversi in direzione della Svizzera. Superarono i controlli doganali senza contrattempi e arrivarono tutti alla stazione di Lugano prima della mezzanotte. Il giorno dopo, con l’appoggio di alcuni avvocati, chiesero asilo politico. Una delle pagine più belle della storia recente del Ticino – l’Azione posti liberi (o gratuiti, Apl) che nel 1974 permise a decine di profughi in fuga dalle atrocità della giunta cilena e ai loro famigliari di trovare rifugio in tutta la Svizzera – è stata scritta con le fatiche e gli imprevisti di tante domeniche come quella di metà marzo che si concluse con l’arrivo dei quattro cileni portati “di qua” con l’avventuroso viaggio Como-Milano-Lugano. Erano domeniche – ma anche sabati e giorni feriali, sere e notti – di poco riposo. C’erano viaggi da organizzare, soldi da raccogliere, contatti da allacciare, camere e pranzi da preparare, una parvenza di semiclandestinità da mantenere. Le mani nella solidarietà le hanno messe tante persone in tutta la Svizzera (allora si contava una ventina di comitati locali e cantonali, oltre a quelli politici – vedasi articolo sotto), ma l’Apl si sviluppò soprattutto in Ticino grazie a una figura di riferimento con solidi contatti in Cile, in Argentina e nel nord Italia (il pastore Guido Rivoir, vedasi box accanto), alla dedizione dei membri del Comitato di soccorso ai profughi cileni e di chi vi gravitava attorno, alla disponibilità di decine e decine di famiglie di ogni colore politico che aprirono le porte delle loro case agli esuli e a un non comune appoggio da parte della popolazione e delle autorità politiche. L’origine ecumenica L’Azione posti liberi prende avvio a cavallo fra 1973 e 1974 su iniziativa dell’allora parroco di Vogorno Cornelio Koch. Con l’esuberanza che lo ha sempre contraddistinto, padre Koch lancia dapprima il sasso nello stagno e poi cerca delle persone che lo appoggino. Il parroco di Vogorno e una ventina di persone – quasi tutte di area Psa – si incontrano nelle ultime settimane del ’73 in un ritrovo pubblico del Luganese per sondare il terreno. Di lì a poco l’abate sarebbe partito dalla val Verzasca: si trattava di trovare una persona a cui passare il testimone. Ad un certo punto interviene Dario Rivoir. Dice che avrebbe sondato la disponibilità di suo padre, il pastore Guido Rivoir. «Sapevo come la pensava, era andato in pensione da poco e quindi aveva tempo», ricorda. Detto fatto. Giorni dopo padre e figlio Rivoir vanno a Vogorno. Nella casa parrocchiale, padre Koch e il pastore Guido Rivoir bevono un boccale di vino e si mettono subito d’accordo. «L’abate Koch, cattolico, e io molto attaccato al protestantesimo: ecco una forma di ecumenismo, forse la vera. Quella dei veri valori. L’ecumenismo di tutti, cristiani e non cristiani di ogni confessione, di quelli che hanno capito e cercano di agire come Gesù Cristo ci ha insegnato nella parabola del buon samaritano», dirà Guido Rivoir quasi vent’anni dopo quando l’ambasciatore cileno in Svizzera gli appunta al petto la medaglia Bernardo O’Higgins, la massima onoreficenza che il Cile riserva agli stranieri. Quando padre Koch e il pastore Rivoir si incontrano, l’Apl era già partita con la pubblicazione di tagliandi sulla stampa ticinese. Su Politica nuova e Il lavoratore il talloncino di iscrizione all’Apl appare a metà gennaio. Un paio di settimane più tardi Cile, il periodico di informazione del Comitato di sostegno alla resistenza cilena (con Psa, Lega marxista rivoluzionaria, Movimento giovanile autonomo e Sinistra di classe, vedasi articolo sotto) pubblica anch’esso un “appello per offrire ospitalità ai rifugiati cileni” nell’ambito di un’azione di cui si designa ancora quale responsabile il parroco di Vogorno. L’azione è volta ad «ottenere l’adesione di volontari disposti ad accogliere per 2 mesi un rifugiato cileno» e il Comitato invita «tutti i democratici» ad aderirvi. L’11 febbraio – quando è già stata avviata una colletta nazionale per pagare il viaggio ai profughi e mentre Guido Rivoir si trova a Buenos Aires per organizzare le prime partenze –, ai microfoni della Radio della Svizzera italiana (Rsi) don Cornelio Koch afferma che in tutta la Svizzera l’appello ha già raccolto l’adesione di tremila persone. I primi arrivi, le prime lotte I primi cinque profughi cileni invitati dall’Azione posti liberi arrivano all’aeroporto di Cointrin alle 17 di sabato 23 febbraio. Ad attenderli ci sono giuristi svizzeri di Amnesty International, della Lega svizzera dei diritti dell’uomo e Guido Rivoir. «Fino a mezzanotte – ricorda il pastore nelle memorie consegnate ai figli – vi fu una tragica lotta per farli rimanere in Svizzera. La polizia li voleva rimandare, rifiutando loro l’asilo (...). Ebbi il permesso di visitare i cileni che attendevano il responso e li trovai tremebondi perché rischiavano di essere rinviati con, come conseguenza probabile, la fucilazione». La delegazione umanitaria ha partita vinta: i cinque cileni – uno del Movimiento de izquierda revolucionaria (Mir) e uno per ogni partito di Unidad Popular: Partito socialista, Partito comunista, Mapu, Partito radicale e Izquierda cristiana – possono restare. Il giorno dopo giungono a Carona, ospiti di Giorgio e Margherita Polli. Di fronte al fatto compiuto e sotto pressione per le polemiche suscitate dal rinvio in Cile di tre profughi sbarcati a Ginevra a fine gennaio, il Dipartimento federale di giustizia e polizia accorda subito l’asilo politico ai cinque ospiti della famiglia Polli. Allo stesso tempo, però, il Consiglio federale riunito in seduta straordinaria decide di introdurre l’obbligo del visto di entrata a coloro che dal Cile volessero recarsi in Svizzera. Da quel giorno, per la Confederazione l’operato dei responsabili dell’Apl è illegale. Ma non importa. Pochi giorni dopo il Comitato ticinese di soccorso ai profughi cileni scrive di aver appreso «con profonda indignazione» del recente «gravissimo passo del Consiglio federale». Tenuto conto dei rischi ai quali andrebbero incontro i cileni obbligati a recarsi all’ambasciata elvetica di Santiago per richiedere il visto e del gran numero di richieste di espatrio raccolte da Guido Rivoir nel suo viaggio di febbraio (una sessantina al giorno), il Comitato ritiene di «dover continuare nella propria azione» opponendosi così a una decisione che «ci offende anche in quanto ticinesi» per aver ignorato la risoluzione con la quale il Gran consiglio aveva invitato i Comuni a sostenere l’Azione posti gratuiti (“Cile”, n. 8, febbraio 1974). A fine marzo, dopo che la cancelleria federale aveva affermato che i responsabili dell’Apl sarebbero incorsi in sanzioni legali (vedasi articolo sotto) per aver fatto entrare oltre dieci esuli (in realtà erano molti di più: solo nel corso di marzo in Ticino ne entrano una cinquantina; a dicembre la Procura sottocenerina scrive di 500 in Ticino e di tremila in tutta la Svizzera, buona parte dei quali entrati dalla frontiera lombardo-ticinese) in territorio elvetico, Guido Rivoir emette un comunicato nel quale dichiara essere «responsabile dell’azione di soccorso a profughi cileni» dicendosi «disposto a renderne conto assumendone l’intera responsabilità, conscio di agire nella tradizione elvetica purtroppo ostacolata dal Consiglio federale». Passare “di qua” Quelle che precedono l’uscita pubblica del pastore sono settimane di intenso lavoro a cavallo della frontiera lombardo-ticinese. Il passaggio clandestino da Milano a Lugano è uno dei cardini di un sistema di selezione, di trasporto e di accoglienza approntato da Guido Rivoir e fatto funzionare da passatori, avvocati, medici, famiglie ospitanti, persone e gruppi che in maniera diversa si mettono a disposizione per la buona riuscita dell’azione. Guido Rivoir aveva portato con sé in Argentina i biglietti in bianco per dei voli Buenos Aires-Milano che il nipote, ex partigiano titolare dell’agenzia di viaggi “Malan” a Torino, gli aveva consegnato dietro unica garanzia di un “pagherò”. I biglietti vengono fatti firmare ai candidati all’esilio selezionati in precedenza da un comitato ecumenico che opera a cavallo fra Santiago e Buenos Aires. A piccoli gruppi i profughi giungono all’aeroporto di Milano muniti di una busta gialla per farsi riconoscere e sono presi in consegna da passatrici e passatori ticinesi o dallo stesso Rivoir che li accompagnano dall’altra parte del confine (dal mese di aprile, dopo che il pastore era riuscito a strappare a Furgler la concessione del visto al Consolato svizzero a Milano in cambio della cessazione dell’Apl alle 100 entrate, i profughi in attesa del nullaosta legale per la Svizzera verranno ospitati per periodi più o meno lunghi dalla comunità valdese di Jacopo Lombardini a Cinisello Balsamo: da lì, in un anno mezzo, ne passeranno circa 250). Passare “di qua” è l’impresa più ardua. L’obiettivo è superare indenne la dogana e mettere piede su suolo svizzero dove si sarebbe potuto richiedere asilo politico con l’ausilio di avvocati che attendono i profughi sulla banchina della stazione. La maggior parte dei viaggi si fa con il treno che parte alle 23.10 da Milano centrale e che, dopo un’ora di attesa alla dogana di Chiasso dove i controlli non vengono quasi mai effettuati, arriva a Lugano verso l’una. Passatrici e passatori siedono accanto ai cileni, pronti a difenderli da agenti con un zelo al di sopra della media. Andrà quasi sempre bene, ad eccezione di due cileni respinti in Italia a fine marzo malgrado avessero presentato – assistiti da giuristi dell’Azione posti liberi – immediata domanda d’asilo. Poco male: pochi giorni dopo i due sarebbero entrati in Ticino per altre vie. Accolti a braccia aperte In Ticino la capillare rete di accoglienza tessuta in poche settimane si articola attorno alle numerose famiglie ospitanti (soprattutto nel Sottoceneri ma anche nel Locarnese e nel Bellinzonese) e al Comitato di soccorso che durante l’intero ’74 si riunisce tutte le domeniche nelle salette di diversi ristoranti di Rivera. Lì si raccolgono i bisogni, si discutono i problemi del viaggio e dell’accoglienza, si contano i soldi che mancano sempre, si cercano le soluzioni. «Lavoravamo come pazzi e a ogni bisogno si cercava di rispondere in modo immediato attivando le persone giuste», spiega Wilma Bassi di Rivera: se qualcuno ha mal di denti si contatta il dentista, se mancano i vestiti si va a un centro di raccolta nello scantinato di un’abitazione privata a Rivera, in caso di problemi di salute si allertano diversi medici, e così via. Per risolvere il cruccio principale del comitato – la cronica mancanza di soldi che impedisce in particolare di acquistare più “biglietti per la libertà” e di pagare quelli già usati – alcune famiglie si autotassano, vengono allestiti spettacoli itineranti (come quello diretto da Alberto Canetta basato su poesie della Resistenza lette da attori della Rsi e da altri artisti, oppure quelli di Dimitri) e organizzate altre attività per raccogliere fondi. Contributi importanti arrivano anche dal Gran consiglio ticinese che in marzo accorda 10mila franchi all’Apl da coprirsi anche con le diarie dei deputati (l’importo mancante sarà versato dal Consiglio di Stato), da numerosi Comuni e parrocchie e da un numero significativo di privati. «Il bilancio indica che i ticinesi hanno risposto generosamente ed in misura ben superiore alla media degli altri Cantoni svizzeri» alla colletta per le spese di viaggio, scrive il Comitato di soccorso in un comunicato del 12 maggio. «Tutti volevano fare tutto, agendo inaccortamente: erano generosi, ma non verso il comitato, che scarseggiava di mezzi, ma verso i cileni con la conseguenza che alcuni di loro immaginavano che qui da noi il denaro cadesse dal cielo», ricorda dal canto suo Rivoir nelle sue memorie. Le due facce dell’incontro L’accoglienza ricevuta in Ticino nei mesi seguenti il suo arrivo il 24 ottobre ’74, Miguel Angel Cienfuegos non l’ha dimenticata. «Sapevamo di essere di fronte a un fatto di straordinaria solidarietà e nonostante tutto ci sentivamo dei privilegiati», dice. Un precoce senso di appartenenza – o almeno una fugace vicinanza dell’anima – lo devono aver sentito anche parte dei molti cileni che vennero ospitati a Lamone (dove nel ’74 e anche dopo «si facevano molte feste e si passavano intere domeniche assieme», ricorda Renato Bernasconi), oppure Camilo Duque-Aravena a cui Delia e Bruno Guerra confezionarono la bandiera di Izquierda cristiana per andare a festeggiare il primo maggio a Lugano. La gioiosa solidarietà dell’incontro in terra ticinese è però temperata per un lasso di tempo più o meno lungo a dipendenza dei casi dalla tragicità del passato dei profughi cileni (alcuni porteranno le conseguenze per sempre delle torture subite), dalle inconciliabili divergenze politiche (i tentativi di creare un’associazione di cileni in Ticino falliranno tutti) e dalle difficoltà sorte nel misurarsi con una cultura sì latina, ma ben diversa (i problemi di adattamento ai ritmi di lavoro, al consumismo occidentale, al cibo, gli amori clandestini, eccetera). Ma quella dell’integrazione – e anche, in parte, quella del ricongiungimento famigliare – è una pagina scritta nel corso degli anni successivi, ben oltre l’Azione posti liberi che termina ufficialmente anche se segretamente con un accordo fra un Guido Rivoir allo stremo delle possibilità finanziarie (aveva accumulato debiti per decine di migliaia di franchi) e fisiche e un Kurt Furgler che ha avuto le sue gatte da pelare per l’impertinenza di tanti ticinesi. Guido Rivoir da allora si porta dentro una leggera sensazione di incompiuto («avrei voluto fare di più, ma non è stato possibile», dirà), che quando volge lo sguardo al presente si unisce a una viva amarezza: «D’accordo la serietà, ma ora si esagera nel porre ostacoli alle persone che cercano rifugio da noi». La frattura della sinistra nostrana «Incuranti della ritrovata unità della resistenza cilena all’estero, incuranti degli appelli all’unità di tutte le organizzazioni e partiti politici cileni, incuranti diremmo delle necessità stesse della resistenza cilena, essi (il Partito del lavoro, il Partito socialista e le organizzazioni sindacali, ndr) hanno rifiutato l’adesione al Comitato di sostegno esistente per costituire un secondo, inutile, settario comitato (…). Osiamo sperare che la base di questi vertici forsennati nelle loro assurde preclusioni dia prova di maggiore maturità politica costringendo i vari dirigenti “scissionisti” a realizzare quella unità voluta dai cileni e che essi con tanta ostinazione rifiutano». Dalle colonne del periodico “Cile”, a cavallo fra il ’73 e il ’74 il Comitato ticinese di sostegno alla resistenza cilena (detto anche Comitato Cile, composto di Movimento giovanile autonomo, Partito socialista autonomo, Lega marxista rivoluzionaria e Sinistra di classe) se la prendeva con il Partito socialista (Pst), con il Partito del lavoro (Pdl) e con la Camera del lavoro che qualche settimana prima avevano dato vita alla sezione ticinese dell’Associazione di sostegno alla resistenza cilena-Salvador Allende. Mentre venivano lanciati i primi appelli per offrire ospitalità ai profughi cileni (vedasi articolo principale), la sinistra ticinese si era già spaccata da mesi sul significato dell’esperienza di Unidad Popular, sulle cause che hanno portato alla caduta del governo Allende e sulle strategie di appoggio alla resistenza cilena. Il golpe dell’11 settembre ha infatti ravvivato «una divisione che c’era già da tempo, alimentata dalle polemiche sorte sulla scia del ’68», dice lo storico Silvano Gilardoni. L’indignazione per il colpo di Stato cileno unì la sinistra ticinese solo per qualche giorno. «La manifestazione del 15 settembre a Lugano fu un atto unitario, poi però le divisioni presero il sopravvento», spiega Gilardoni. Il 31 ottobre 1973 alla scuola tecnica di Trevano si tenne l’assemblea costitutiva del Comitato Cile, promosso in un primo tempo dal Movimento giovanile autonomo. Davanti a 300 persone «la rottura della sinistra si consumò nel modo più drammatico», scrive Pompeo Macaluso nella sua Storia del Partito socialista autonomo. I rappresentanti del Pst, del Pdl e dell’Unione sindacale svizzera abbandonarono la sala rifiutandosi di aderire a un comitato che nei mesi successivi – seppur in preda a divergenze fra Psa e Lega marxista rivoluzionaria – si sarebbe mosso su più fronti: organizzazione di una “Sei ore per il Cile” al Conza di Lugano in occasione del primo maggio 1974, pubblicazione del periodico “Cile”, conferenze, esposizioni fotografiche e di arte, raccolta fondi per la resistenza cilena, partecipazione al Coordinamento nazionale dei comitati affini e a manifestazioni in tutta la Svizzera. Alter ego “occidentale” – e in parte riflesso – delle divisioni ideologiche che contraddistinsero la sinistra cilena durante e dopo il governo di Unidad Popular, la frattura nella sinistra ticinese si ricompose solo nella pratica umanitaria dell’accoglienza dei profughi. In misura diversa e a titolo individuale, una parte dei membri dei due comitati di sostegno partecipò infatti all’Azione posti liberi seguendo di fatto l’avvertimento che il pastore Guido Rivoir aveva lanciato nel novembre del ’73 dalle colonne di “Cile”: «Ma soprattutto il Cile insegni: non bastano le parole facili di protesta, non bastano gli slogan estremisti: sono utili a volte per affermare un credo politico, una via sociale, ma attenti a non prestare il fianco alla reazione che gongola quando può parlare di opposti estremismi». Guido Rivoir invitava a intraprendere «un’azione perseverante di soccorso ed aiuto ai cileni oppressi» alla «disponibilità per un reale sacrificio in soccorso alla libertà, quando è conculcata, nel Cile come altrove».

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05.09.03

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