Belpaese

Se in un paese di 60 milioni di abitanti i poveri sono quasi 15 milioni, se un italiano su quattro fatica a mettere insieme il pranzo con la cena – disoccupati, precari, giovani, donne, ma ormai anche working poor – è legittimo pronunciare la parola proibita, patrimoniale? No, non lo è, la tassa sulla ricchezza resta un tabù anche sotto i colpi del Covid che ha ingrossato le fila dei poveri e le code davanti alla Caritas. Una volta in fila per un piatto caldo c’erano migranti e homeless, oggi la composizione sociale dei richiedenti aiuti è mutata, si è espansa fino ad alcuni strati di ceto medio. Eppure, se nomini la patrimoniale sei un pericolo pubblico, “vuoi far piangere i ricchi”.

 

Qualche parlamentare guidato da Fratoianni (Leu) e Orfini (Pd) ha provato a infrangere il tabù con un emendamento che ipotizza un prelievo a chi ha più di 500mila euro tra patrimonio mobiliare e immobiliare a partire dallo 0,2% che sale proporzionalmente fino al 2% per chi ha più di 50 milioni e del 3% per chi supera il miliardo. Apriti cielo, peggio che se i cavalli dell’armata rossa fossero andati ad abbeverarsi alle fontane di San Pietro. Facendo due conti, se un cittadino ha 500.000 euro finirebbe per versarne 1.000, e in più non dovrebbe pagare Imu sulla casa e imposta di bollo sul deposito dei titoli. Il Pd ha sconfessato i firmatari della mozione assassina, il M5S si è indignato, le destre minacciano di prendere le armi. Guai a parlare di ridistribuzione della ricchezza (di un infimo 0,2%) in tempi di massime diseguaglianze. Quando le idee e i modelli della destra diventano di quasi tutti c’è di che interrogarsi.


Un secondo tabù alla prova Covid è l’intervento pubblico in economia. Guai allo stato gestore, all’invasione di campo: no al panettone di stato (Sme, cioè Iri), all’auto di stato (Alfa Romeo), all’acciaio di stato (Ilva), e ancora Telecomunicazioni e tanto d’altro svenduto al peggior offerente. Si diceva: ce lo ordina l’Europa; a noi, mica alla Germania o alla Francia.

 

Il pubblico deve limitarsi a soccorrere il privato in difficoltà con sgravi fiscali, rottamazioni, ammortizzatori sociali. Investimenti pubblici e utili privati, è la storia delle privatizzazioni all’italiana. Questo secondo tabù finalmente vacilla. La crisi del 2008 e quella da Covid hanno imposto di ripensare il ruolo dello stato che può tornare imprenditore. Il caso più eclatante ma non certo unico è quello della ex Ilva: nata nel 1905, diventa pubblica nel ’29 e lo resta fino alla dissennata vendita ai Riva nel ’95, commissariata nel 2012 in seguito alle inchieste della magistratura e da due anni passata agli indiani di ArcelorMittal che non rispettano gli impegni con lo stato e i sindacati. Ora lo stato rientra con una presenza del 50% che diventerà del 60% nel 2022.

 

Anche un altro pezzo di acciaio made in Italy (Piombino) tornerà pubblico, dentro un piano nazionale di settore. I sindacati respirano ma precisano: tutti i quasi 11mila dipendenti devono tornare al lavoro, non è che essere licenziati dallo stato faccia meno male rispetto al licenziamento privato. Il governo chiede 5 anni di tempo, troppi, per riportare tutti in fonderia. E non è che la diossina di stato sia meno velenosa. La promessa è un abbattimento degli inquinanti fino al 90%. Staremo a vedere.

Pubblicato il 

03.12.20

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