Se voglio acquistare un paio di scarpe da ginnastica o un chilo di pomodori, se devo scegliere un ristorante in una città sconosciuta, se cerco di convincere i miei figli a non accettare quei maledetti inviti di compleanno presso una sede Mc Donald’s o Play Planet, se leggo sulle pareti di un cantiere luganese che proprio lì verrà edificata una cosa che da vedere sarà un comunissimo palazzone, ma che intanto si chiama già Balestra Building (e a nessuno dei passanti sembra scoppiare da ridere o da piangere), se insomma devo confrontarmi con uno dei mille aspetti quotidiani del nostro mercificato vivere, ho l’impressione di capire immediatamente cosa significhi il termine «globalizzazione», e di essere persino in grado di immaginare qualche forma di modestissima resistenza. – Provi questo prodotto. È precotto, premasticato, predigerito. Diecimila lire. – Un po’ caro per essere merda bell'e fatta. – Però si risparmia un sacco di fatica. (Piergiorgio Bellocchio, Dalla parte del torto, Torino, Einaudi, 1989, p. 94) Ma se provo a dare una forma più precisa a queste sensazioni, e soprattutto a chiedermi in che modo un simile fenomeno stia modificando la nostra cultura e la nostra visione del mondo, mi accorgo subito di essere in difficoltà: il ragionamento si fa più sfumato, i termini del discorso sembrano sfuggire e trasformarsi. Spostarsi dal piano delle pure e semplici merci, e delle nostre quotidiane abitudini ad esse relative, a quello dei prodotti culturali e dei nostri modelli di vita non è facile; e neppure è agevole definire anche solo con relativa approssimazione in cosa e perché l’ipotetica «globalizzazione della cultura» si distingua dalle precedenti puntate della moderna e contemporanea barbarie. Due cose però mi sembrano abbastanza evidenti: la prima è che ciò che per comodità si è deciso di chiamare «globalizzazione» non rappresenta uno scenario futuro ancora evitabile, bensì il luogo stesso entro il quale siamo chiamati a vivere; forse potremo modificarne positivamente alcuni aspetti, eliminarne altri particolarmente nefasti; ma è dall’interno di questo atroce supermercato che dovremo inventare, se ne saremo in grado e se ne avremo il tempo, qualche possibilità di convivenza dignitosa e ragionevole e magari anche gioiosa; o almeno qualche uscita di sicurezza. La seconda cosa che mi pare chiara è questa: a meno di appiattire il discorso sulle cose più ovvie, mettiamo il fast food o le nike, non ci si può illudere né di essere assolutamente immuni ed estranei al fenomeno, né di poterlo descrivere con esattezza, guardandolo oggettivamente dall’esterno; al contrario, esso ci contiene come un’impalpabile bolla d’aria, che non possiamo vedere nella sua interezza, che ci ha nutriti e forse avvelenati per anni, e di cui possiamo soltanto cogliere i i venti impetuosi che ne agitano l’atmosfera. Alle volte mi sembra che un'epidemia pestilenziale abbia colpito l'umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l'uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l'espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze. (Italo Calvino, Lezioni americane, Milano, Garzanti, 1988, p. 58) Ho scelto queste parole di Calvino (e anche stavolta si tratta di parole pronunciate oltre dieci anni fa, quando il termine «globalizzazione» ancora si usava poco), tratte da un suo libro forse sopravvalutato (che, tra l’altro, se il suo autore fosse stato invitato, invece che a Harvard e a Cambridge, a Oslo e a Tromsö, difficilmente si sarebbe intitolato «Lezioni norvegesi») per introdurre il primo dei venti impetuosi cui alludevo, e che mi sembra toccare la questione dell’orizzonte: è un vento, quello di cui vorrei parlare, che colpisce appunto l’orizzonte, e lo fa diventare più piccolo e più stretto. Quando soffia questo vento, che infuria da almeno un decennio, diventa più difficile riflettere e discutere, il mondo sembra improvvisamente una minuscola gabbia, le parole perdono un po’ del loro significato e della loro precisione, alle domande bisogna rispondere in modo chiaro, con un sì o con un no, senza esitazioni e complicazioni, e le domande stesse tendono a essere formulate in forma elementare, a proporre una scelta assoluta tra un questo e un quello, un’antitesi in uniforme che spudoratamente ci strizza l’occhio e ci ricorda che in realtà c’è una sola risposta possibile. Naturalmente si tratta di una menzogna: non c’è mai una sola risposta possibile. Ma le menzogne più smaccate sono talvolta più comode delle verità complesse. Dunque, dalla Guerra del Golfo in avanti, le domande sono state sempre poste in modo semplificato, così da ottenere, appunto, la sola risposta possibile: è cambiata la strategia comunicativa, sono cambiati gli attori e le motivazioni ufficiali; ma è rimasto pressoché inesistente, o si è addirittura ulteriormente ristretto, l’orizzonte di un possibile dibattito, lo scenario di un eventuale dissenso. Nel ’91, riapparvero sui giornali italiani termini che pensavamo consegnati ai dizionari storici del primo Novecento, come «disfattista» (per bollare chi si opponeva all’intervento militare; ma aggiornato semanticamente, e inteso ormai come sinonimo di «pacifista»), mentre nella Svizzera italiana un appello (pacifista: appunto) sottoscritto da un centinaio di persone non veniva pubblicato (a pagamento: mica gratis) dal «Corriere del Ticino» per ragioni evidentemente ideologiche. Non c’è bisogno di fare gli esempi più recenti. A pochi mesi dalla conclusione di quella guerra, Alberto Asor Rosa pubblicò un libro, piuttosto pretenzioso ma non del tutto privo di meriti, intitolato Fuori dall’Occidente, ovvero ragionamento sull’Apocalissi (Torino, Einaudi, 1992); eccone la frase d’esordio: «Con la guerra del Golfo, per la prima volta nella storia, tutto l’Occidente è compatto – da Seattle a Vladivostock – e tende sempre di più a coincidere con il mondo». Ma se la guerra, o meglio le guerre (dal Golfo all’Afghanistan passando per il Kossovo), rendono più manifesto il progetto globalizzante dell’Occidente riunificato, la gestione delle informazioni prima e durante le guerre, il tono delle discussioni, la censura diretta e indiretta, tutta insomma la macchina propagandistica mette in evidenza alcune delle caratteristiche più generali del dibattito politico-culturale contemporaneo. Anzi: della ristrettezza di questo dibattito, sempre più inghiottito da una sorta di pensiero unico che sembra non lasciare alternative e che ha trascinato nella sua orbita anche buona parte della sinistra tradizionale, ormai ammutolita e nel complesso plaudente. La guerra giusta, il mostruoso ossimoro attivato da una delle più illustri menti della sinistra italiana, Norberto Bobbio, riassume un decennio di premeditati disastri globali; e se tra Bobbio e le triste pile di La rabbia e l’orgoglio (l’abile trovata pubblicitaria di Oriana Fallaci, subito adeguatamente confezionata per il grande consumo) c’è ancora per fortuna una distanza incommensurabile, resta il fatto che questa sventagliata di adesioni più o meno entusiastiche e sofferte espelle dallo spettro del visibile ogni forma di opposizione. «Taci, il nemico non ti ascolta», scriveva ancora Bellocchio (p. 34). Esattamente questa è la situazione. Ma il borgo esiste ancora, popolato e più vivo che mai, e inalterata è rimasta la mezza dozzina di cognomi, che via via devono bastare per le numerose e assai estese famiglie. Nel piccolo camposanto, mai ingrandito, che circonda la chiesa dall'intonaco sempre bianchissimo nonostante il passare del tempo, la terra è letteralmente composta dalle ossa dissolte delle generazioni passate, ed è impossibile trovarvi, anche alla profondità di dieci piedi, un granellino che non abbia fatto parte di un organismo umano e non abbia aiutato, a suo tempo, a rivoltare la terra. (Gottfried Keller, Enrico il Verde, trad. di L.Vincenti, Torino, Einaudi, 1992, p.5) Cosa c’entra, adesso, il grande Keller, caro a Lukács? Mi ha sempre colpito profondamente questo passo, posto proprio all’inizio del suo poderoso romanzo di formazione; come se in queste parole, che descrivono un piccolo villaggio ottocentesco, fosse possibile cogliere una dimensione verticale, propria della memoria e della lingua, una stratificazione del tempo e della parola: cioè appunto quella dimensione e quella complessità del linguaggio che avverto oggi particolarmente minacciate. Rispetto al vento impetuoso delle guerre, che chiude l’orizzonte in una morsa, questo somiglia piuttosto a un turbine che azzera e livella, appiattisce e impoverisce le nostre coscienze, umilia la profondità delle cose e della storia, riducendo tutto a una superficie liscia e banale, prevedibile e soprattutto riproducibile. Un linguaggio liscio, seriale, di pronta beva, una melassa di immagini patinate, gradevoli alla vista e inoffensive, o violente e veloci, ma immediatamente assimilabili; una scorrevolezza melliflua, e insieme l’imperativo della brevità, del gusto forte, del colore metallico, del volume assordante: ecco alcune delle caratteristiche della cultura mercificata, che ci circonda e ci assedia. Oppure: una comicità a buon mercato, greve, un horror vacui che stipa i nostri giorni di parole gridate, di rumori di fondo, di continui brusii, di musiche inascoltate, di conversazioni convulse. Certo, non tutta l’odierna produzione culturale rientra in questo mediocre quadro; e tuttavia, quanto più ci si avvicina alla zona della cultura passibile di proficua commercializzazione, tanto più questi tratti si fanno insistenti, e persino totalizzanti. Ciò che non si piega alla logica commerciale viene allontanato e reso invisibile, silenziato: solo i romanzi vendibili, solo i film di successo, solo i programmi che garantiscono un elevato indice d’ascolto possono occupare il centro della scena; e d’altra parte proprio questo conferma e ingigantisce un gusto diffuso, un’abitudine che chiederà poi di essere nuovamente soddisfatta, secondo un meccanismo ovvio ma potentissimo. L’alleanza dei grandi organismi produttivi di cultura, ormai da decenni assolutamente trasformati in industrie dello svago (case cinematografiche, grande editoria, ecc.) e di quelli distributivi forma una tenaglia che stritola o bandisce ciò che tenta di sfuggire all’omogeneizzazione: si tratti di singoli autori renitenti, di interi generi culturali giudicati scarsamente commercializzabili e ridotti a povera curiosità, o di opere del passato che ormai superano la capacità media di ascolto, di lettura e di comprensione. Un romanzo come quello di Keller non è soltanto lungo: propone un ritmo narrativo, un’intonazione della voce che sempre più risultano distanti, fiochi, estranei al nostro tempo ammutolito. Potrebbe darsi, ahimé, che gli anni a venire chiedano agli esseri umani più resistenza che ardimento, più tenacia che genio, più moderazione che stravaganza. (Philippe Jaccottet, Austria, in corso di stampa) Secondo le regole di ogni articolo, adesso dovrei concludere. Non lo farò, invece, perché non ho conclusione vera e propria, né saprei proporre soluzioni. Ricordo però che verso la metà degli anni ’60 il poeta Philippe Jaccottet scrisse un curioso libro dedicato all’Austria, una sorta di guida di viaggio attraverso la grande cultura austriaca, da Mozart a Thomas Bernhard. Rispetto a quel luogo, culla di un passato culturale che è in parte anche il nostro, e teatro di sconvolgimenti terribili lungo tutto il XX secolo, pareva all’autore che il presente in cui scriveva già parlasse un linguaggio altro e minaccioso, simile a quello di questi nostri anni: «Se consideriamo le gigantesche rampe missilistiche, le pile atomiche, i nuovi progetti d’urbanizzazione, gli oggetti d’uso quotidiano in plastica, i “grandi complessi”, i “supermercati”, vediamo delinearsi l’immagine di un mondo affatto uniforme, dove la poesia cosiddetta concreta forse sarà al suo posto (ma un posto al quale non avremmo alcuna voglia di sedere), un mondo in cui non ci saranno più nazioni, costumi, passato, neppure più lingue forse se non un vago esperanto o un codice matematico, un’immensa astrazione che del resto comincia già ad esistere (…) Ma, davvero, non riesco a immaginare che l’uomo, per quanto preso dalle sue corse di missili, per quanto in fuga il più lontano possibile dal passato, per quanto in grado di accumulare prodigi di calcolo, possa sfuggire a quell’ombra interiore che lo riduce a un essere ben pietoso, ombra alla quale si direbbe che il passato dell’Austria, che il passato di tutti noi, non abbiano del tutto smesso di opporre le proprie luci». Oggi, è forse più difficile di quarant’anni fa trovare la forza per condividere una simile fiammella di speranza; ma è anche più urgente e necessario cercare di farlo.

Pubblicato il 

01.02.02

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