Difficile racchiudere in una formula lo straordinario affresco di una vita in fuga che il regista italo-svizzero, Silvio Soldini, ha dipinto per gli spettatori nel suo ultimo film tratto dal romanzo Hier della scrittrice ungherese-svizzera Agota Kristof. Aiutato dal talento straordinario di una sceneggiatrice come Doriana Leondeff, di un compositore come Giovanni Venosta, di un direttore della fotografia come Luca Bigazzi e di un giovane attore come Ivan Franek, Silvio Soldini ha messo da parte le note leggere del suo recente e pluripremiato Pane e tulipani, per ritrovare la tensione drammatica dei suoi precedenti lungometraggi: L’aria serena dell’ovest del 1990, Un’anima divisa in due del 1993, Le acrobate del 1997. Il film, una coproduzione italo-svizzera, girato tra La-Chaux-de-Fonds e Neuchâtel, è presente alla kermesse berlinese. Fuga da un dolore insostenibile «Oggi ricomincia la corsa idiota. Mi alzo alle 5 di mattina, mi lavo, faccio la barba, salgo sull’autobus, chiudo gli occhi e tutto l’orrore della mia vita presente mi assale». Tobias è fuggito verso l’occidente da un non precisato paese dell’est. Vive un insostenibile dolore: la paura di aver ucciso il padre, un cliente della madre prostituta. Affranca il suo alienante quotidiano da operaio in una fabbrica di orologi con la passione per la scrittura e il desiderio di una donna «sconosciuta, bella, irreale» che si incarnerà nella ritrovata Caroline, compagna d’infanzia e figlia del suo stesso padre. Il regista riscatta il personaggio dal finale disperato del romanzo con un’ennesima fuga: questa volta non dal dolore bensì verso un nuovo mondo. Il film contiene molti elementi dell’esperienza migratoria in Svizzera e della sua specifica problematicità. Ma c’è anche la Svizzera come una terra franca che è in grado di nascondere, e allo stesso tempo di liberare, determinati meccanismi interiori in chi vi emigra. Nel libro il protagonista viene da un paese senza nome e da una nazione senza importanza. Quando ho letto il romanzo mi sono reso conto che era una storia che poteva parlare in modo universale di un problema: il fatto di essere senza radici, di essere immigrati, di essere in una terra straniera. Quello che ho cercato di fare è di non scegliere un tempo particolare, non volevo né fare un film in costume, né un film troppo contemporaneo. Mi sembrava che questa storia potesse avere una dimensione universale. Non volevo si pensasse agli albanesi piuttosto che agli ex-jugoslavi. Una delle possibilità era di ambientare il film negli anni cinquanta, con dei protagonisti italiani, ma mi sembrava di snaturare la storia. Mi piaceva il fatto che non fosse precisato né dove si è, né in che tempo storico si vive. Perché hai scelto di girare il film in Svizzera? Il libro di Agota Kristof per me è ambientato lì dove lei ha vissuto, forse in un altro paesino, ma la zona è quella. Lei vive a Neuchâtel, è arrivata nel ‘56 dall’Ungheria, quando aveva ancora la bambina piccola e andava a lavorare come operaia. Ieri è un romanzo autobiografico. Il romanzo è ambientato lì, anche se non è esplicitato, il protagonista lavora in una fabbrica di orologi, per cui inevitabilmente…! E poi conoscevo la zona di La Chaux-de-Fonds perché ci sono stato per due mesi quando avevo diciannove anni per fare una specie di apprendistato in una fabbrica di orologi. La solitudine dell’emigrante Ho vissuto l’atmosfera di quei luoghi, è stato un periodo di grossa solitudine, non conoscevo nessuno, uscivo alle 7 di mattina, tornavo alle 5 di sera; ero andato lì in moto, il sabato e la domenica facevo dei giri, nella mia memoria è sempre rimasto qualcosa di quel periodo. Durante la stesura della sceneggiatura, assieme a Doriana Leondeff, che ha scritto con me il film, siamo andati due o tre giorni in quei posti per verificare se fossero quelli giusti: ho ritrovato quell’atmosfera che cercavo. C’è uno sguardo abbastanza duro sulla Svizzera, desolato, grigio, di solitudine. Mi sono attenuto allo sguardo che c’è nel romanzo. Il personaggio del libro e del film è di un certo tipo, non è un personaggio qualunque, è il suo stato di solitudine, il suo stato di vicinanza con la sua vita interiore a dar corpo a questo sguardo; uno sguardo che ho capito grazie a quel che ho vissuto nella mia breve esperienza di operaio a La-Chaux-de-Fonds. Io non credo che il film abbia il dito puntato sulla Svizzera, la quale simboleggia un luogo dell’occidente come ce ne possono essere tanti. «Brucio nel vento» è il tuo primo film ambientato in Svizzera, ma diversi tuoi film sono nati da co-produzioni svizzere e italiane. Io sono nato e vissuto in Italia, ma con un passaporto svizzero; la nazionalità mi è stata trasmessa da mio padre, anche se è il nonno di mio padre l’ultimo ad essere nato in Svizzera, a Chiasso. Fino a cinque anni fa avevo solo il passaporto svizzero, poi è stata abrogata una legge che impediva al figlio di una madre italiana di essere italiano ed ho potuto acquisire la nazionalità italiana. Se non avessi avuto il passaporto svizzero probabilmente non sarei mai riuscito a fare il mio primo film «L’aria serena dell’ovest». Dall’Italia ho avuto pochi soldi, la Svizzera invece mi ha dato un grosso aiuto: sono riuscito ad avere i contributi da Berna e dalla Tsi. Da allora ho continuato ad avere un buon rapporto con la Svizzera per tutti i miei film, finché in quest’ultimo sono riuscito finalmente ad ambientarvi una storia. Pensi dipenda da questa tua condizione esistenziale l’attenzione che c’è nel tuo cinema al tema della frontiera? Può essere. I sogni oltre la frontiera Secondo te perché esistono le frontiere? Quali sono le ragioni che spingono uomini e donne ad attraversarle? Le frontiere ci sono sempre state. Gli uomini hanno deciso di delimitare i territori con dei confini, con una lingua unica, chiamare quei territori nazioni. I motivi per attraversarle possono essere vari: la fuga verso qualcosa di diverso, la ricerca di qualcosa che non si ha, il viaggio, la voglia di visitare altre culture, altri paesaggi. Attraversare le frontiere è una ricchezza, vuol dire entrare in contatto con altri popoli, altre tradizioni, altre culture, altre lingue, altri modi di vivere. Penso che più frontiere si attraversino, più si diventa ricchi, culturalmente e spiritualmente. In questo film ci sembra di capire che l’attraversamento sia anche un ricominciare. Questo film inizia con una fuga da un paese dell’Est verso l’Occidente, per ricominciare una vita da zero, dimenticando un passato doloroso. È un po’ diverso rispetto agli altri miei film dove, più che un vero attraversamento, c’era un interesse verso la diversità, verso l’alterità, verso persone che vengono da una cultura diversa dalla nostra. Per la prima volta hai rinunciato alla presa diretta, tranne per le parti in francese che sono sottotitolate, come mai hai deciso di doppiare il film? La scelta della lingua del film è stata determinata dagli attori; nel libro non si conosce la nazionalità del protagonista, si sa solo che viene dall’est europeo. Ivan Franek, che è ceco ma vive a Parigi, lo abbiamo trovato dopo una lunga ricerca in tutta l’Europa dell’est.; è lui che ha dato la lingua al film, la scelta degli altri attori è venuta di conseguenza. Nella versione originale il film è girato in presa diretta in ceco e in francese; purtroppo l’Italia è un paese dove si doppia tutto, in Svizzera non è così. Comunque a Milano e a Roma, una volta la settimana, il film è proiettato in lingua originale.

Pubblicato il 

15.02.02

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