Gli occhi della Colombia

Giunge anche in Ticino, nel suo lungo peregrinare attraverso l’Europa, la mostra fotografica “Colombia. El rostro de la resistencia” (“Colombia, il volto della resistenza”) di Oscar Paciencia. Per organizzazione del Comitato regionale socialista del Bellinzonese, e con il sostegno di area, essa approda infatti da oggi a Camorino nell’ambito della campagna permanente internazionale “Colombia esige giustizia”. La mostra ospitata a Camorino propone 56 immagini ed è accompagnata da testi esplicativi. Essa riguarda aspetti attuali della vita quotidiana delle comunità in resistenza per la vita del Sur de Bolivar, di Bogotà con le sue periferie e delle pianure del dipartimento di Arauca, con particolare attenzione alla situazione educativa e produttiva. Oscar Paciencia è da anni un fotografo attento alle tematiche dell’America latina e, oltre a collaborare con importanti testate italiane come il Manifesto, Liberazione, il Resto del Carlino, Guerra e Pace e Carta, ha già realizzato precedenti lavori sulle realtà indigene del Chiapas, dell’Ecuador e del Cile. Il materiale per questa mostra è stato raccolto fra agosto e novembre dello scorso anno. Vi compaiono scene di vita quotidiana, dal duro lavoro in miniera ai precari alloggi di molti abitanti del Sur de Bolivar, dai militari e paramilitari onnipresenti nelle strade colombiane ai senza tetto che dormono sui marciapiedi. Ma soprattutto vi compaiono volti, molti volti: di giovani soldati, di anziani contadini, di bambini pieni di speranza e di donne disperate. Sono gli occhi il filo conduttore di questa mostra, gli occhi di un popolo che chiede soltanto giustizia. La mostra “Colombia. El rostro de la resistencia” viene inaugurata stasera venerdì 3 settembre alle 18 e rimarrà aperta fino al 28 settembre alla casa comunale di Camorino. Orari: lu-gio 14-18; ve 14-21, sa-do 16.30-19.30. Dal 17 al 19 settembre la mostra sarà trasferita al Centro civico di Arbedo in occasione della rassegna “L’America latina che cambia”. Oscar Paciencia, qual è l’intento artistico e politico della sua mostra “Colombia, el rostro de la resistencia”? La realtà colombiana è una tra le più complesse dell’America Latina. Di questa complessità a noi europei arriva quasi sempre solo ciò che serve a far quadrare i conti con l’ideologia, ormai imperante, del mercato. Oppure ciò che è funzionale a far scattare meccanismi di “umana pietà” nell’opinione pubblica, quando vengono raccontate (ipocritamente, molto poco e da pochi mezzi di informazione) notizie di massacri sofferti dalla popolazione civile. Infine difficilmente viene fatto almeno il tentativo di spiegare le ragioni sociali, politiche ed economiche per cui la Colombia è considerato “il paese più insicuro al mondo”. La mostra cerca di raccontare il punto di vista di chi questi processi da un lato li subisce, ma dall’altro ne è protagonista “resistendo” quotidianamente ai soprusi ed alla repressione. Un racconto fatto in maniera diretta e senza pietismi a coloro i quali non hanno avuto la possibilità di vedere. Penso che il lato “artistico” sia incastrato nei personaggi stessi delle foto. Mi piacerebbe che le persone e le cose fotografate espropriassero il potere di rappresentazione del fotografo che le ritrae, raccontando esse stesse la loro storia. L’esposizione fotografica è un contributo alla Campagna “Colombia esige giustizia”. Come è nata e come si sta articolando questa campagna? La Campagna è nata nell’ambito di un progetto più grande, “Colombia: Nunca mas!” (“Colombia: mai più!”) attivata nel 1996 da moltissime organizzazioni sociali e difensori dei diritti umani. Tale progetto aveva l’obiettivo di contribuire alla lotta contro l’impunità per crimini di “lesa umanità” commessi in Colombia negli anni tra il 1966 e il 1998. Il progetto ha documentato in maniera precisa oltre 38 mila casi di torture, sparizioni o esecuzioni extragiudiziarie. La realizzazione dei tre giganteschi volumi che contengono tutta la documentazione ha fatto da cornice a ciò che poi è diventata la “Campagna contro la Impunità: Colombia esige giustizia”, a cui partecipano centinaia di organizzazioni sociali, per i diritti umani, sindacali e indigene di tutto il mondo. La Campagna si articola attraverso moltissime iniziative, tra cui i Tribunali Internazionali di Opinione di Barrancabermeja (maggio 1999), di Chicago (agosto 2000) e di Parigi (novembre 2003); la Campagna mondiale di boicottaggio della Coca-Cola, accusata davanti ad una Corte penale di Atlanta per aver utilizzato bande paramilitari per eliminare parte dei suoi lavoratori sindacalizzati; la Carovana per la Vita dei sindacalisti colombiani che ha attraversato cinque delle più cruente Regioni del paese il luglio scorso per denunciare le condizioni materiali di vita dei lavoratori iscritti ai sindacati; la campagna contro la Nestlé, che anche in Colombia con il fine di ingigantire gli utili calpesta i diritti di intere popolazioni. In Europa abbiamo informazioni molto parziali sulla Colombia. Si sente parlare solo della guerriglia (le Farc), dei gruppi paramilitari e della lotta governativa, sostenuta dagli Usa, alle coltivazioni di coca. Qual è la realtà? La popolazione colombiana è l’eterna esclusa dalla “comunicazione di massa”, dall’ “informazione”. Soprattutto quella attiva, politicizzata e sindacalizzata, nonostante in Colombia esistano centinaia di gruppi organizzati ed estremamente vivi. La Colombia è un paese in guerra. Questa guerra si sviluppa non solo militarmente (sono più di 60 mila gli appartenenti alle guerriglie ed ai gruppi paramilitari), ma in maniera pianificata attraverso le scelte economiche del governo di Uribe Velez. Ci sono nel paese più di tre milioni di profughi interni di guerra. Secondo gli ultimi dati, esistono oltre 5 mila prigionieri politici. Oggi in Colombia otto milioni di persone soffrono la fame, e più del doppio sono denutrite. Undici milioni di persone vivono nell’indigenza. Il 21 per cento della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno, mentre il 60 per cento è disoccupata o sottoccupata. Il 70 per cento dei contadini possiede il 5,6 per cento della terra coltivabile, mentre lo 0,9 per cento dei latifondisti ne possiede il 40 per cento. Questi numeri sono la cifra della guerra che le popolazioni civili colombiane subiscono. A ciò si somma la terrificante presenza dei gruppi paramilitari, che al servizio delle grandi imprese ed utilizzati per la commercializzazione della coca, sono i ferrei alleati dello stato colombiano nel combattere tutti coloro che si oppongono al modello attuale: contadini, sindacalisti, comunità indigene, studenti, donne e lavoratori in genere, passando per quelle organizzazioni che tentano di difendere i diritti umani. Come si manifesta nella vita quotidiana la repressione? Sono rimasto tre mesi sul territorio colombiano ed ero accreditato come giornalista. Ciò mi ha permesso di vivere in modo diretto, ma sicuramente da “privilegiato” la vita quotidiana. Questo però non ha impedito alle forze speciali dell’esercito colombiano e della polizia, durante una perquisizione arbitraria alla ricerca di presunti guerriglieri, avvenuta nel corso di una intera notte a Saravena (dipartimento di Arauca), di sbattere me e altri due cooperanti spagnoli faccia-al-muro, minacciati con mitra e pistole alla testa. Del resto è dell’inizio di agosto la notizia che, prima un dirigente indigeno, quindi tre dirigenti sindacali, sono stati brutalmente trucidati dall’esercito (un’esecuzione extragiudiziale), fatti passare per guerriglieri, nel dipartimento di Arauca. Queste persone erano le più attive, in questa zona, nel denunciare la repressione paramilitare, oltre che nel rivendicare i diritti della comunità. Lei è un ottimo conoscitore della realtà latino-americana, una realtà in fermento, basti pensare all’irruzione nello scenario messicano una decina di anni fa del movimento zapatista, o al nascere di movimenti indigeni in Ecuador e Perù e ultimamente anche in Bolivia, o ancora al cambio di presidente in Argentina, Brasile e Venezuela. Come valuta questi mutamenti? Sono un fotografo e non un analista, quindi le mie sono solo impressioni, forse speranze. Per altro assemblate nel tempo molto dilatato di viaggi abbastanza distanti l’uno dagli altri. Credo comunque che l’America Latina conservi la sua peculiarità di stupirci. Non solo attraverso i cambi istituzionali di governo che sono avvenuti in questi anni, ma soprattutto per la eterna capacità di ricreare le speranze di trasformazione a partire dal “basso”. E questa capacità ce l’hanno, ad esempio le organizzazioni indigene del continente, che da oltre 512 anni resistono alla “scoperta”, utilizzando il loro modo di vedere il mondo – la cosiddetta cosmovisione – per ribellarsi agli imperi dell’economia. Ce l’hanno gli abitanti delle periferie devastate di Caracas quando mettono in piedi le tv di quartiere per raccontarsi. Oppure ce la fanno vedere gli studenti e i “piqueteros” argentini che con la loro lotta svelano la bugia di un’Argentina ricca. Credo che abbiamo ancora molto da apprendere da questa strabiliante capacità di resistere, di non piegare la testa, mescolata ad un piglio scanzonato ed allegro, che neppure le peggiori nefandezze quotidiane riescono a scalfire.

Pubblicato il

03.09.2004 05:30
Matteo Gianini