Sorride Giovanni Leonardi il 3 maggio 2011. Il Ceo di Alpiq si trova a Kladno, in Repubblica ceca, per inaugurare il cantiere di un nuovo blocco della centrale a carbone che il gruppo possiede vicino a Praga. Momenti così, in quegli anni, i gruppi elettrici svizzeri ne vivono a decine: inizi di cantieri, inaugurazioni di centrali, tagli di nastro, sorrisi e stuzzichini con costruttori e amministratori locali. Oggi la festa è finita. Il settore è confrontato con una grossa crisi che affonda le radici anche in questi investimenti decisi un decennio fa. Erano gli anni d’oro del settore elettrico elvetico: tra il 1999 e il 2009 i profitti del settore passarono da qualche centinaio di milioni a diversi miliardi di franchi. Tutto merito dell’oro blu: miliardi di metri cubi d’acqua depositata nei bacini artificiali in attesa di essere turbinata. Energia prodotta a piacimento, in particolare di giorno, nelle ore di forte consumo, e che veniva venduta a prezzi elevati ai vicini europei. Secondo un servizio della Rts, con un costo di produzione di circa 6,5 centesimi al Kwh, al picco di mezzogiorno l’energia idroelettrica poteva essere venduta anche a 20 centesimi per Kwh. Una manna per le società e per i loro amministratori. Ma anche per i cantoni e le città, soprattutto dell’Altipiano, che, grazie ai bilanci positivi, hanno visto moltiplicare i propri dividendi in quanto azionisti delle aziende elettriche. Presi da questa euforia, i dirigenti hanno deciso di investire gli utili nella costruzione di nuovi impianti. In Svizzera, dove per approfittare della redditività dell’idroelettrico, sono stati lanciati grossi progetti di centrali di pompaggio-turbinaggio. E all’estero, dove dei miliardi sono stati investiti in centrali a gas e carbone. Tutti questi investimenti sono stati giustificati evocando la penuria di energia che avrebbe presto colpito la Svizzera. In realtà, tale strategia è stata ispirata da motivazioni di carattere finanziario: gli alti prezzi dell’elettricità hanno ingolosito gli operatori svizzeri che, grazie ai nuovi impianti, hanno intravisto la possibilità di produrre e vendere energia per un mercato europeo sempre più energivoro. Oggi la realtà e ben diversa e le strategie di allora vengono pagate a caro prezzo. La situazione è molto critica per Alpiq che ha annunciato di voler vendere il 49% delle partecipazioni nelle proprie centrali idroelettriche. L’azienda spera così di trovare liquidità per fermare l’emorragia che, dal 2011, l’ha vista cumulare perdite per 4,7 miliardi di franchi. Ma la crisi tocca tutto un settore, quello elettrico elvetico, che non ha certo brillato per lungimiranza. Prendiamo un altro gigante: Axpo. Lo scorso 18 dicembre ha inaugurato la centrale di pompaggio-turbinaggio di Linth-Limmern. Costo dell’opera: 2,12 miliardi di franchi. Pochi giorni dopo viene annunciata una perdita annuale di 929 milioni di franchi. Le cause di questa crisi sono molteplici. Su tutte la concorrenza della Germania che ha sovvenzionato fortemente le energie rinnovabili e approfittato dei bassi costi del carbone e dei certificati CO2 per inondare i mercati di energia elettrica.Conseguenza? I prezzi sono scesi di molto. In Svizzera le aziende non possono più lucrare sui picchi di mezzogiorno: la differenza tra il prezzo durante le ore di punta (periodo di maggiore domanda del mercato) ed il prezzo durante il resto della giornata (periodo di minore domanda del mercato) si è ridotta di molto, riducendo così i margini di guadagno. All’estero invece, le nuove centrali fossili sono costrette a vendere al di sotto dei costi di produzione. Rendendo gli investimenti fatti, oltre che inquinanti, economicamente controproducenti. Franco Romerio, professore all’Università di Ginevra riguardo alla situazione attuale rileva anche il paradosso della liberalizzazione in “stile elvetico”: «I produttori realizzano forti perdite dovendo vendere l’energia a basso prezzo sul mercato libero, mentre i distributori percepiscono cospicui profitti vendendo questa stessa energia a un prezzo relativamente elevato ai piccoli consumatori (che non hanno ancora ottenuto il diritto di cambiare fornitore)». Alcuni segnali di una possibile crisi erano stati visti da tempo. Già nel 2005 uno studio del Politecnico federale di Zurigo rendeva attenti che il margine di profitto poteva erodersi. Ma i baroni dell’energia hanno continuato ad investire nelle centrali estere, andando paradossalmente a contribuire a generare questo surplus di corrente che, di fatto, è causa della crisi. Nel caso delle centrali di recente costruzione, questo calo dei prezzi va a sommarsi ai costi d’ammortamento. Ciò che oggi pesa sui bilanci delle società, in particolare di quelle attive soprattutto nella produzione. Come la ticinese Aet, che quest’anno chiuderà nelle cifre rosse. E a fare la differenza sarà la partecipazione nella centrale a carbone di Lünen. Già nel bilancio 2014 si segnalava che la quota di energia di Aet prodotta nell’impianto tedesco era venduta a prezzi di mercato «molto al di sotto dei costi di produzione». Oggi in difficoltà, i gruppi energetici chiedono aiuto allo Stato (ciò che già avviene). Le scelte sbagliate dei dirigenti di allora non sembrano però essere messe in discussione. Se Heinz Karrer, Ceo di Axpo ai tempi della corsa alle centrali a gas, è diventato presidente di Economiesuisse, Giovanni Leonardi, all’origine degli investimenti nelle centrali fossili di Alpiq, è oggi presidente del cda di Aet. Il ticinese ha lasciato la guida di Alpiq nel settembre 2011 (anche se sarà pagato fino a fine 2012), qualche mese prima che la catastrofe venisse a galla. Per il 2011, infatti, vanno a bilancio perdite per 1,7 miliardi di franchi. È in quel momento che la società comincia la sua cura dimagrante, mettendo sul mercato unità produttive fino al mese prima considerate strategiche. È il caso delle centrali a carbone nella Repubblica Ceca, la cui messa in vendita è stata presa in considerazione nel 2012. Sono passati più di tre anni e nel frattempo Alpiq ha cambiato idea: quelle centrali non sono più in vendita. O meglio, nessuno ha voluto comprarle.
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