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Gli indigeni che hanno sconfitto l'industria del salmone

L'antropologo ticinese Geremia Cometti sta studiando gli Yagan, una piccola comunità del Sud del Cile che si è rafforzata nella battaglia contro una multinazionale norvegese.

Terra del Fuoco, Patagonia cilena. Un labirinto di isole e canali in prossimità dell'Antartide, in cui da oltre sei mila anni vivono gli Yagan, la comunità più australe del mondo. Oggi ne rimangono un centinaio che vivono nei pressi di Puerto Williams, base militare sull'isola di Navarino. Sterminati dai conflitti, dalle persecuzioni e dalle malattie infettive, gli Yagan resistono. Una resistenza che si è consolidata anche grazie ad una battaglia, vinta, contro una multinazionale del salmone che, con i suoi allevamenti intensivi, avrebbe distrutto quello che per gli Yagan è la loro terra: il mare.

 

In questo mondo alla fine del mondo è arrivato di recente anche Geremia Cometti, professore di antropologia e direttore dell'Isituto di etnologia all'Università di Strasburgo. Originario di Corteglia, nel Mendrisiotto, Cometti per anni ha studiato i Q'eros, una popolazione delle Ande peruviane, interessandosi in particolare sulla loro percezione e sulla loro relazione con il cambiamento climatico (qui potete trovare un documentario sui Q'eros realizzato da Cometti per la Rsi). Di passaggio in Ticino, abbiamo chiacchierato con lui per conoscere meglio il suo lavoro presso gli Yagan, comunità poco nota, capace di sconfiggere la potente industria del salmone cilena.

 

 

Professor Cometti, chi sono gli Yagan ?

Questa popolazione è divenuta celebre anche grazie a Charles Darwin, il quale descrisse gli Yagan come la comunità più miserabile che avesse mai visto. Uno Yagan, Jemmy Button, fu portato in Inghilterra per essere rieducato secondo i metodi europei. Una sorta di esperimento antropologico che dimostrò una notevole capacità di adattamento e apprendimento da parte di Button. Qualche anno dopo, una volta riaccompagnato nella sua terre di origine dal capitano Fitz Roy al timone del celebre Beagle (che da il nome al canale che seziona l'arcipelago della Terra del Fuoco), Button decise di restare a vivere come prima nella sua terra e di non ritornare nella più “confortevole” Europa. Darwin poi si scusò, ma agli Yagan, che in seguito verranno quasi sterminati, rimase appiccicato questo appellativo di esseri miserabili. Oggi, sull'Isola Navarino, rimane una comunità di circa un centinaio di persone.

 

Come mai ha deciso di andare in Patagonia e seguire questa popolazione?

Nell'immaginario collettivo si pensava che le popolazioni fuegine (gli Yagan, i Selknam e i Kawesqar) non esistessero più. In realtà gli Yagan sono tornati alla ribalta in Cile perché sono stati gli unici ad essere riusciti a scacciare dalle terre indigene un'impresa privata. Questa loro battaglia mi ha incuriosito: mi interessa capire come si sono organizzati e come, anche con l'aiuto di un'importante Ong internazionale, abbiano potuto sconfiggere (per ora) la potente industria del salmone.

 

Cosa è successo esattamente?

La Nova Austral, un'impresa cilena con capitali a maggioranza norvegesi, aveva ottenuto la concessioni in maniera illegale per potere costruire in mare quattro grosse gabbie per l'allevamento intensivo del salmone. Grazie anche all'aiuto di Greenpeace, gli Yagan sono riusciti a vincere una battaglia giuridica e a obbligare ad andarsene la multinazionale. Un esito non certo scontato se si considera che il Cile è il secondo produttore al mondo di salmoni e che questo pesce è il secondo prodotto d'esportazione cileno dopo il rame. Nel 2019, il re e la regina norvegesi sono venuti a Puerto Williams per omaggiare l'investimento della Nova Austral. L'accoglienza, però, non è stata loro favorevole: gli Yagan si sono pitturati come facevano i loro avi e, sostenuti dall'intera comunità locale, hanno fatto capire che i reali – e l'industria del salmone – non erano i benvenuti. Questo fatto, reso noto dalla stampa e documentato con dei video, ha reso famosi gli Yagan e la loro lotta.

 

Quanto è importante per i Yagan il mare?

Il loro rapporto al mare è uno degli oggetti della mia ricerca. Il mare per loro è fonte di sussistenza, ma non solo. Fa parte della loro visione cosmica del mondo, non è semplicemente una risorsa da utilizzare. Gli Yagan considerano che lo Stato gli ha tolto il mare. Li ha obbligati a vivere in una specie di riserva e ha imposto una serie di regole per potere navigare e pescare. Le popolazioni indigene che hanno sempre vissuto di quello, che andavano a pescare in canoa e in maniera non intensiva, non hanno più potuto accedervi. Poi, in seguito al terremoto e allo tsunami del 2010, il Governo ha costruito (senza chiedere nessun consenso) un muro di protezione alto tre metri che, di fatto, ha impedito a queste persone di vedere il mare. Per questo, contro questa separazione simbolica, la comunità si è opposta ed è riuscita a fare abbassare queste barriere.

 

Che impatto ha avuto questa battaglia vinta contro l'industria del salmone?

Un impatto molto importante. Non dimentichiamo che l'industria del salmone cilena utilizza in media cinquecento volte in più antibiotici che il salmone prodotto in Europa del Nord. Ciò significa che questa produzione è altamente nociva nei confronti degli ecosistemi e che il salmone, non essendo una specie endemica, quando fuoriesce dalle gabbie diventa un super predatore che mangia tutto il resto. Inoltre, i salmoni contribuiscono al consumo totale dell’ossigeno uccidendo praticamente la vita marina. Quindi il fatto di avere scacciato questa industria avrà sicuramente un impatto ecologico positivo. Ma l'importanza è anche data dall'impatto che questa lotta ha avuto sulla comunità Yagan.

 

Può spiegarci meglio?

Negli anni '80 e '90 era quasi una vergogna rivendicare di essere indigeno. In un posto di tremila abitanti, in cui i due terzi sono militari o figli di militari (data la posizione strategica importante) si può ben capire questa situazione, soprattutto nel periodo della dittatura di Pinochet. I giovani si rifiutavano di parlare la loro lingua – che di fatto sta scomparendo – per paura di essere assimilati agli indigeni. Ora, anche grazie al riconoscimento a livello internazionale delle comunità indigene si è passato ad avere un certo orgoglio nel dire di essere uno Yagan. In questo processo, anche grazie alla battaglia contro il salmone, e in precedenza quella contro il muro che impediva loro di vedere il mare, gli Yagan si stanno raggruppando come una comunità viva per rivendicare la loro relazione al mare e il loro passato legato alla pesca artigianale.

 

Il popolo Yagan è quindi vivo e vegeto?

Spesso si parla di Cristina Calderon, una signora di oltre novantanni come l'ultima Yagan, la sola che sa ancora parlare questa lingua davvero speciale. Ma la stessa abuela Cristina non vuole sentire parlare di essere ultima. Ci sono i sui figli e questa nuova generazione che rivendica con orgoglio l'appartenenza alla comunità. Il rischio più grande ora sono forse le malattie: in marzo sono arrivati sull'isola due medici per fare della profilassi e uno di questi aveva il Covid-19. Gli Yagan sono riusciti anche in questo caso a chiedere alle autorità l’isolamento della loro isola per evitare che, ancora una volta, a causa dello Stato la popolazione indigena venga sterminata.

 

 

Un'ultima domanda. Quale è il ruolo dell'antropologo in questi contesti?

Qui, ma anche nelle Ande peruviane dove i Q'eros e altre comunità sono confrontate con il potere dell'industria estrattiva (di quell'oro che poi magari arriva nelle raffinerie ticinesi), cerco di capire cosa c'è dietro al conflitto tra una comunità indigena e delle imprese che vogliono accaparrarsi le risorse. Per loro non è solo un conflitto economico o politico, è qualcosa di più. Un qualcosa che non definirei sacra, ma è una maniera di concepire la natura completamente diversa dalla nostra. Una montagna, come l'Ausangate per i Q'eros, o il mare per i Yagan, è qualcosa di più che una risorsa naturale da sfruttare o da conservare, sono delle vere e proprie entità che fanno parte integrante di queste società. Il mio ruolo, o meglio l'utilità del mio lavoro, è quindi quello di fare una sorta di traduzione antropologica per evitare i malintesi che ne scaturiscono quando si analizza il conflitto solamente a partire dal nostro punto di vista occidentale dominante.

 

 

 

Pubblicato il

23.07.2020 16:56
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