Gli effetti boomerang della globalizzazione

Se qualcuno ancora cerca le prove dei possibili danni della globalizzazione, può andare a farsi un giretto nella contea di Beaver in Pennsilvania. Troverà degli abitanti probabilmente depressi e sicuramente arrabbiati a morte con un sistema che in nome del profitto si accanisce contro di loro e si fa beffe del loro destino. Sicuramente non si tratta dell’unico posto al mondo in simili condizioni, ma il fatto che in questo caso parliamo di territorio degli Stati Uniti è senz’altro significativo. Ma cosa sarà mai successo di tanto strano in questo posto? Presto detto: dapprima le nuove logiche produttive hanno portato alla chiusura dell’industria pesante che di fatto rappresentava il pane della regione, poi la diffusione di cibi d’importazione contaminati, ha causato un’importante epidemia di epatite A. Un caso di portata perlomeno nazionale, con 540 contagi accertati e tre decessi, causati dal consumo di cipolle verdi, utilizzate soprattutto nei fast food, e importate da paesi quali il Messico e il Guatemala. Paesi scelti proprio per la possibilità di produrre a basso costo, senza però tenere conto delle condizioni ambientali, in questo specifico caso carenti per quanto riguarda la qualità dell’acqua impiegata nell’agricoltura. Per carità, non sto dicendo che i poveri abitanti della contea di Beaver sono vittime più meritevoli di compassione rispetto a coloro che pagano a caro prezzo il processo di globalizzazione selvaggia nei paesi in via di sviluppo, certo che no. Anzi, e proprio il fatto che anche nel mondo sviluppato e industrializzato comincino a vedersi palesi i segni deleteri di questa corsa al profitto dovrebbe far riflettere sul fatto che oltre a non portare benefici sostanziali laddove si trasferiscono le produzioni, si penalizzano di fatto anche gli stessi paesi dai quali il processo ha preso il via. Riassumendo il tutto con un modo dire, il più indicato sembrerebbe essere “oltre al danno, la beffa”. Non solo gli abitanti della contea di Beaver si trovano ora in una zona economicamente depressa, in quanto non concorrenziale con siti di produzione asiatici, ma le peggiori condizioni economiche li portano probabilmente a dover scegliere il fast food come forma alimentare a buon mercato, con il conseguente rischio di ammalarsi di epatite. A questo punto verrebbe da trovare una morale della favola, ma a ripensar bene a tutta la faccenda mi rendo conto che probabilmente non ce n’è bisogno. Meditate gente, meditate…

Pubblicato il

28.11.2003 13:00
Paolo Riva