Gli anelli deboli: quali altri paesi sudamericani rischiano la fine dell'Argentina

Dopo l’Argentina, il cui crack era atteso da almeno un anno, ci sono altri due anelli deboli nella catena latino-americana che saranno – o potrebbero essere – i prossimi a saltare. Il Venezuela e la Colombia. Se uno dei due salterà sarà difficile continuare a sostenere la tesi ufficiale di «tranquilli, l’Argentina non è contagiosa». Perché se è vero che si tratta nei tre casi, come sempre, di situazioni differenti e non immediatamente comparabili, è altrettanto evidente che il precipitare della crisi in tre paesi così diversi in tempi così stretti sarebbe la riprova di una instabilità nuova e inquietante in una regione che dopo 15 anni di neo-liberalismo economico più o meno assoluto e di democrazia politica formale sembrava pacificata – o rassegnata – sotto il «consenso di Washington». Nel senso di Casa bianca e Fondo monetario. Fatte salve le singole specificità, risulterebbe chiaro che il modello proposto (imposto) non funziona. Venezuela: analogie col caso argentino Il Venezuela è quello che presenta più analogie con il caso argentino. Perché se in Argentina la grande paura è che il governo Duhalde torni al vecchio populismo, corredato dai suoi due aggettivi specificativi: nazionalista e protezionista, il presidente Hugo Chávez populista, nazionalista e protezionista lo è per definizione. Solo che, finora, da quando ha vinto a valanga le elezioni del dicembre ’98, la «rivoluzione bolivariana» si era limitata più che altro a incendiari proclami retorici. Eccessi verbali che gli venivano perdonati – come l’eccessiva amicizia per Fidel Castro –, anche in nome del fatto che il Venezuela è il secondo fornitore di greggio degli Usa e che le sue riserve vengono dopo solo a quelle dell’Arabia Saudita e del Mar Caspio (che poi sono la vera ragione delle guerra americana «al terrorismo»). Ma ora che il prezzo del petrolio è di nuovo crollato, che la sua popolarità è in caduta verticale (dal 90 al 19 per cento), che la povertà angosciosa in cui si dibatte incredibilmente l’80 per cento della popolazione dell’Eldorado venezuelano non accenna a diminuire, che ha deciso di dare un giro di vite in materia economica con 49 decreti presidenziali che toccano la proprietà delle terra, le royalities petrolifere e i diritti di pesca, evidentemente ha passato il segno e nulla gli viene più perdonato. L’oligarchia politica, economica, sindacale e sociale, annientata dall’ondata chavista in sei o sette elezioni in due anni, ha ripreso fiato. Il 10 dicembre una inedita coalizione fra Federcamaras – l’organo del padronato locale – e Ctv – il sindacato tradizionalmente legato al vecchio duopolio social-democratico/social-cristiano che ha (s)governato per quasi 40 anni – ha proclamato un «paro», a La Carlota e negli altri barrios di lusso di Caracas sono cominciati i «cacerolazos». L’11 settembre è stato un punto di svolta anche per il Venezuela. La minaccia di Bush: «o con noi o contro di noi», ha cominciato a macinare Chavez. Le sue dichiarazioni contro il «Plan Colombia», contro l’Alca – l’Accordo di libero commercio delle Americhe proposto/imposto da Bush ai 34 paesi «democratici» dell’America latina a partire dal 2005 –, avevano già fatto scattare l’allarme a Washington. Ma sono state le sue dure critiche dei bombardamenti americani sulla popolazione civile afghana – equiparati al «terrorismo» di Osama bin Laden – la classica goccia che ha portato a una prima rottura, con il richiamo a Washington «per consultazioni» dell’ambasciatore Usa. La signora Donna Hrinak è poi tornata, dopo qualche giorno, a Caracas ma ormai il count-down è cominciato. Ai primi di gennaio, l’ambasciatore Hrinak è andata di persona a recare conforto alla redazione di «El Nacional», uno dei grandi giornali venezuelani, attaccato prima da Chavez per «il suo terrorismo mediatico» e poi da una folla di sostenitori chavisti. Chavez ha risposto per le rime ai critici di dentro e di fuori. Se prima diceva che la «rivoluzione bolivariana è pacifica», adesso ricorda che «questa è una rivoluzione armata» e che se «l’oligarchia ha le pentole, il popolo ha i caccia F-16, i missili e i cannoni». E dopo il crack argentino ha girato il coltello nella piaga affermando che «solo fino a pochi anni fa l’Argentina ci era presentata come un modello da seguire: neo-liberalismo, mercato, privatizzazioni, modernità… Noi abbiamo portato il Venezuela fuori da quella strada». In Venezuela sono sempre più frequenti le voci di un golpe. Che potrebbe assumere anche le forme di un auto-golpe. Colombia a rischio L’11 settembre del «con noi o contro di noi» è stato decisivo anche per la Colombia. I tre anni di negoziati fra il governo del conservatore Andres Pastrana e le Farc, il principale gruppo guerrigliero, sono stati dichiarati falliti dal governo domenica 13 gennaio. Che accusava del fallimento le Farc, soprattutto per il rifiuto di proclamare un immediato cessate il fuoco, e dava 48 ore per lasciare l’ «area di distensione» concessa alla guerriglia nel novembre ’98 – «Farclandia», nel sud colombiano, 42 mila chilometri quadrati, grande come la Svizzera. Le Farc di Manuel «Tirofijo» Marulanda, ribattevano che la sospensione del fuoco doveva essere il risultato e non il preambolo dei negoziati, che erano disponibili a continuare i negoziati, che la decisione di rompere era del governo e Pastrana si era piegato ai voleri di Bush. L’ultimatum scadeva alle 21.30 di domenica 13 poi rinviato di 24 ore per dare tempo ai tentativi di mediazione dell’ultimo minuto. Lunedì 14, dopo un’intera giornata di negoziati, l’inviato dell’Onu, l’americano James LeMoyne, vescovi cattolici e gli ambasciatori del gruppo dei 10 «paesi amici», costituitosi nel febbraio 2001 e fra cui ci sono Svizzera e Italia, riusciva a convincere le Farc ad accettare in via di principio la principale richiesta di Pastrana: «ci impegnamo a negoziare un cessate il fuoco». Lunedì notte il presidente colombiano appariva in tv per annunciare che i negoziati riprendevano ma concedeva solo sei giorni alle Farc per fissare «il calendiario di un accordo» che doveva portare «alla cessazione delle ostilità». Il nuovo ultimatum scade domenica 20 gennaio. Ma è quanto mai improbabile che si possa arrivare a una soluzione con una guerriglia in attività da 40 anni e che controlla il 40 per cento del territorio. Ed è quanto mai improbabile che le principali richieste contenute nell’agenda in 14 punti consegnata dalle Farc al momento dell’avvio dei negoziati – fra cui la sospensione del pagamento del debito estero, la riforma agraria e forti misure per la redistribuzione del reddito – possano essere accettate da un’anatra zoppa qual è Pastrana (le elezioni presidenziali sono fissate per maggio) e soprattutto dagli americani. In questi tre anni non solo le Farc si sono rafforzate militarmente ma anche le forze armate che, addestrate dai berretti verdi Usa, hanno più che raddoppiato i loro effettivi (da 20 a 50 mila), hanno messo in piedi forze di rapido intervento e brigate anti-guerriglia, hanno avviato un piano di fumigazione indiscriminata delle colture di coca, e soprattutto hanno – nonostante le critiche internazionali – rafforzato in numero e capacità operative i paramilitari di estrema destra delle Auc (Autodefensas unidas colombianas), da sempre usati come forza di complemento anti-guerriglia per i lavori sporchi. Il Plan Colombia, votato dall’amministrazione Clinton nel giugno 2000, è stato il punto di svolta: 1,3 miliardi di dollari di aiuti militari per la guerra al «narco-traffico», che per gli americani vuol dire «narco-guerriglia». Tanto più dopo l’11 settembre, quando il Dipartimento di stato ha messo nel listone di «gruppi terroristi» le Farc e l’Eln (il secondo principale movimento guerrigliero, impegnato in negoziati di pace cominciati venerdì 11 gennaio a l’Avana e che per il momento continuano). I margini di manovra politica sono sempre più stretti, mentre Amnesty lancia invano l’allarme sull’ «impatto disastroso» che la rottura del processo di pace avrebbe sulla popolazione civile. Una guerra strisciante che non ha soluzione militare e che ha già fatto 40 mila morti rischia da un momento all’altro di esplodere in una guerra «sempre più civile e meno militare – come dice Augusto Ramirez Ocampo, ex ministro degli esteri ed ex negoziatore con le Farc – in cui qui continuerà a morire più gente che in Kosovo e in Afghanistan».

Pubblicato il

18.01.2002 04:30
Maurizio Matteuzzi