Gli "Zwangsarbeiter" di Hitler

Gersthofen è un piccolo centro industriale della Baviera situato 70 chilometri a nordovest di Monaco. Le fabbriche che dominano il paesaggio c’erano già 60 anni fa. Durante la seconda guerra mondiale a Gersthofen l’industria bellica produceva a pieno ritmo. Nei laboratori chimici della zona, tra le altre cose, veniva raffinato il carburante per i V1 e i V2, i missili dall’effetto devastante in cui Adolf Hitler aveva riposto, fino all’ultimo, le speranze di ribaltare le sorti del conflitto. La forza lavoro a Gersthofen, come avveniva ovunque in Germania in quegli anni, era costituita dai cosiddetti “Zwangsarbeiter”, prigionieri militari e civili deportati dai Paesi occupati dalla Wehrmacht per essere utilizzati come schiavi nel sistema di produzione nazista. Le loro condizioni di vita erano durissime: ritmi di lavoro massacranti, freddo, pochissimo cibo, condizioni igienico-sanitarie insostenibili, punizioni corporali e maltrattamenti di ogni genere. Si calcola che i lavoratori coatti impiegati nelle industrie tedesche tra il 1941 ed il 1945 furono oltre 12 milioni. Tra loro i più provenivano dall’Europa dell’est, ma centinaia di migliaia furono anche gli italiani (soprattutto gli appartenenti al disciolto regio esercito) deportati dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Degli “Zwangsarbeiter” in Germania si è cominciato a parlare molto tardi. Solo nel 1998 il governo federale ha istituito la fondazione “Erinnerung, Verantwortung und Zukunft” (memoria, responsabilità e futuro) che ha il compito di risarcire i lavoratori schiavi sopravvissuti alla guerra e al trattamento disumano. Al risarcimento, che ha un valore puramente simbolico (poco più di 7 mila euro a persona) e riguarda solo i civili, ma non i militari deportati, contribuiscono in parti uguali lo Stato tedesco e le imprese che a suo tempo si arricchirono col sangue e col sudore degli “Zwangsarbeiter”. L’industria tedesca, in realtà, non avrebbe mai pagato di propria spontanea volontà. A convincere gli imprenditori recalcitranti è stato, infatti, il timore di dover affrontare cause di risarcimento miliardarie che si annunciavano da Oltreoceano. Finora la storiografia tedesca si è limitata a ricostruire la portata generale ed i numeri del fenomeno “Zwangsarbeiter”. Quasi del tutto assenti, invece, gli studi dedicati al lavoro coatto nelle singole realtà locali, in una regione, una città o in un singolo comparto industriale. Un’eccezione in questo senso è costituita dal progetto di Bernhard Lehmann, un insegnante di liceo di Gersthofen, che, con l’aiuto dei suoi alunni, da qualche anno a questa parte sta cercando di ricostruire il tragico passato della sua cittadina e di rendere così omaggio alle vittime di allora (vedi anche intervista sotto). Tutto ebbe inizio nel 2001, quando il professor Lehmann decise di dedicare il corso di storia del penultimo anno del liceo “Paul Klee” al tema degli “Zwangsarbeiter”. Lehmann sapeva che, durante la seconda guerra mondiale, nelle industrie di Gersthofen e dintorni erano stati impiegati dei lavoratori coatti, nessuno, però, prima d’allora, nemmeno qualche storico dilettante, si era mai interessato a quel tema. Il perché di quella strana dimenticanza Lehmann ed i suoi alunni lo capiscono quando il sindaco di Gersthofen, in un primo tempo, impedisce loro la consultazione degli archivi comunali. Ricorrendo all’autorità giudiziaria, professore ed alunni riescono a farsi aprire le porte dell’archivio ed entrano in possesso di una rassegna degli orrori catalogata con pignoleria maniacale. L’archivio storico cittadino, conserva, infatti, ancora tutte le schede dei lavoratori schiavizzati nelle industrie chimiche e meccaniche della zona, ma anche nelle campagne circostanti. Migliaia di nomi e di destini tornano alla luce dopo decenni di oblio. Lehmann ed i suoi ragazzi si mettono al lavoro e col materiale recuperato allestiscono una rassegna sul lavoro coatto a Gersthofen dal 1941 al 1945. Quando poi, nei mesi successivi alla mostra, Lehmann decide di cercare gli ex “Zwangsarbeiter” per risarcirli simbolicamente e presentare loro le scuse della sua comunità, ancora una volta si rende conto di poter contare solo sui suoi alunni. Il mondo politico e soprattutto le imprese che negli anni ’40 si sono arricchite con il lavoro coatto non sono disposti a sostenere l’iniziativa di Lehmann. Così, invece che dagli eredi della Ig Farben (Bayer in testa), dalla Man e dalle altre aziende coinvolte, i fondi per risarcire gli “Zwangsarbeiter” di Gersthofen arrivano da un gruppo di artisti che organizza concerti e spettacoli di beneficenza a sostegno del progetto. Coi soldi raccolti Lehmann si reca in Polonia, in Ucraina e in Italia, dove incontra gli ex lavoratori coatti, consegna loro una cifra simbolica e cerca di convincerli che – nonostante gli industriali – la Germania di oggi è un Paese diverso da quello che popola ancora i loro incubi. Le indagini dei liceali tedeschi Per Bernhard Lehmann, insegnante di storia del liceo “Paul Klee” di Gersthofen, la ricerca della verità sull’oscuro passato della propria comunità è stata per molti anni una vera ossessione. Nel piccolo centro le persone più anziane sapevano tutte degli “Zwangsarbeiter” e del trattamento disumano riservato loro durante la guerra, ma nessuno voleva ricordare. Anche quando quattro anni fa, con l’aiuto dei suoi alunni, cominciò ad indagare a fondo sul destino dei lavoratori coatti, in molti, a partire dall’amministrazione comunale, tentarono di dissuaderlo e, vedendo che non era possibile, provarono ad ostacolare la sua ricerca. «Il sindaco – ci racconta – all’inizio si rifiutò di farci accedere all’archivio storico cittadino. Aveva paura della reazione del suo elettorato conservatore e delle imprese locali, qualora le nostre indagini avessero portato alla luce un passato scomodo. Per consultare il materiale antecedente al 1945 fummo, quindi, costretti a rivolgerci all’autorità giudiziaria». Che cosa avete rinvenuto nell’archivio? Il contenuto dell’archivio storico ci ha lasciato senza fiato. Ben ordinate per giorno, mese ed anno di deportazione abbiamo rinvenuto migliaia di schede segnaletiche di lavoratrici e lavoratori coatti con indicata l’industria cui erano destinati, la baracca loro assegnata, le note sulla loro condotta e le eventuali punizioni inflitte. All’inizio la mole di lavoro ci ha impaurito, poi, ripresici dallo shock ci siamo dati da fare ed abbiamo iniziato a catalogare il materiale. Come hanno reagito i suoi concittadini? Le reazioni sono state contrastanti. In molti, specie nei più giovani, la nostra ricerca ha destato interesse. Non solo i miei alunni, ma anche alcuni loro amici, si sono offerti di dedicare parte del loro tempo libero al lavoro di catalogazione del materiale rinvenuto. Quanto al sindaco e ai rappresentanti delle istituzioni, sono passati dal completo rifiuto iniziale ad una progressiva apertura: non potevano fare altrimenti, visto il grande interesse che la nostra indagine ha suscitato nei mezzi d’informazione. Qualche persona anziana, infine, mi ha bollato come “traditore della patria” e i soliti decerebrati di estrema destra mi hanno minacciato di morte. Insomma di tutto un po’. Il vostro lavoro, però, non si è limitato unicamente alla ricerca storiografica. No, e non poteva essere altrimenti. Solo dando un volto alle schede e agli altri documenti rinvenuti, la ricerca poteva trovare un suo sbocco. I miei alunni ed io ci siamo dati da fare e abbiamo rintracciato diversi ex lavoratori coatti sopravvissuti alla guerra. Abbiamo preso contatto con loro, dovunque si trovassero (in Polonia, Ucraina o in Italia), e abbiamo cercato di risarcirli almeno simbolicamente. Con l’aiuto di una serie di artisti entusiasti del progetto, abbiamo organizzato serate di beneficenza e raccolto i fondi necessari. Purtroppo, e questa è la pagina più amara e scandalosa di tutta la vicenda, dalle aziende della zona, che a suo tempo si arricchirono sfruttando gli “Zwangsarbeiter”, finora non è giunto nemmeno un centesimo. Quali obiettivi pensa di aver raggiunto in oltre quattro anni di lavoro? Innanzitutto per i miei alunni e per me è stato un onore conoscere ottantenni e novantenni che, nonostante le atrocità subite durante la guerra, sono ancora disposti ad aprirsi e ad onorarci della loro amicizia. Inoltre credo che per i miei ragazzi sia stato molto importante conoscere queste persone e vedere come da una ricerca condotta a scuola possono svilupparsi intensi rapporti umani. Sono sicuro che l’esperienza fatta abbia insegnato loro che dietro la Storia, con la esse maiuscola, si nascondono sempre una serie di destini individuali, spesso tragici come in questo caso, che vale la pena di approfondire. Infine penso che siamo riusciti a scuotere l’opinione pubblica di Gersthofen e dell’intera regione. Certo, chiunque sapeva dell’esistenza degli “Zwangsarbeiter”, ma nessuno, finora, si era mai sognato di farne un argomento di discussione pubblica. Quale sarà il suo prossimo passo? La ricerca degli ex “Zwangsarbeiter” è ancora in pieno corso. Anche la raccolta dei fondi va avanti, grazie all’aiuto degli artisti e di alcuni privati che hanno preso a cuore la nostra iniziativa. Un sogno, però, ce l’ho: vorrei che il comune di Gersthofen dedicasse un monumento ai lavoratori coatti del Terzo Reich. Solo allora, forse, troverò pace.

Pubblicato il

22.04.2005 01:00
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