da Washington Per molte imprese americane la guerra contro l’Iraq si sta rivelando un grosso affare. Hanno rifornito le truppe di alloggi, viveri, strumenti di precisione e naturalmente armi e automezzi. L’affare è destinato a durare nel tempo. Washington ha promesso alla popolazione irachena di ricostruire rapidamente strade, ponti, ferrovie, scuole e tutto quanto le bombe stanno distruggendo. Un piano ambizioso che ha già suscitato dissapori tra Washington e Londra, ma anche tra Washington e le Nazioni Unite. I costi sono un punto dolente della storia. Gli americani sperano di cavarsela con poco grazie ai soldi del petrolio iracheno. Prima ancora che le bombe cominciassero a cadere sulla capitale irachena e prima di capire quale governo si insidierà a Baghdad, il governo americano aveva elaborato i piani per la ricostruzione. I lavori di preparazione sono così avanzati che in questi giorni sono già stati assegnati i primi appalti, in particolari quelli per il risanamento del porto di Umn Qasr. Naturalmente gli incarichi andranno esclusivamente a imprese americane, che a loro volta potranno subappaltare lavori a società estere. Quello che si capisce è che gli americani vogliono fare in fretta e soprattutto avere la supervisione dei lavori. Il loro progetto è molto ambizioso: vogliono finire tutto (guerra e ricostruzione) se possibile nel giro di un anno o poco più. Hanno fretta forse perché hanno in testa altri progetti, ma molto più semplicemente perché si avvicinano le elezioni e il presidente ha bisogno di mostrare i suoi successi per essere rieletto. L’idea di dover mantenere una forte presenza militare per anni in Iraq è un incubo al quale al Pentagono non si vuole per il momento neppure pensare. Per questo l’amministrazione ha puntato le sue carte subito sulla ricostruzione. Il nuovo governo iracheno non potrà che piegarsi alla decisione americana e col tempo sicuramente si vedrà recapitare la fattura. Lavorando in fretta gli americani sperano di conquistare le simpatie degli iracheni e dell’opinione pubblica internazionale. I giornali americani cercano paragoni. Ricordano le esperienze passate. Paragonano i progetti di ricostruzioni per l’Iraq al famoso piano Marshall, che ha permesso all’Europa del dopoguerra e soprattutto a Germania e Giappone di guarire rapidamente dalle profonde ferite del secondo conflitto mondiale. Quel piano economico non ha solo aiutato l’Europa, ma ha anche permesso di risollevare le sorti dell’industria e in particolare dell’economia americana. Adesso si spera di ottenere se possibile lo stesso effetto. Molto dipenderà dall’ammontare della fattura. Per il momento il governo si mostra prudente. Proprio questa settimana il presidente George Bush ha chiesto al parlamento 75 miliardi di dollari (poco più di 100 miliardi di franchi) per finanziare la prima fase del conflitto. L’importo comprende anche 2,5 miliardi di dollari per l’Iraq da utilizzzare sotto forma di aiuti umanitari e per la ricostruzione. I costi del conflitto rischiano comunque di essere maggiori. Secondo uno studio realizzato da “Taxpayers for common sense”, un gruppo privato che esamina l’impiego delle entrate fiscali, Washington dovrà pagare per la guerra e la ricostruzione quest’anno 110 miliardi di dollari e 550 miliardi nell’arco dei prossimi 10 anni. Questo costo andrà prima di tutto ad aggravare il deficit pubblico, che quest’anno potrebbe raggiungere facilmente quota 400 miliardi di dollari. È un fatto che comincia a preoccupare perché oltre al deficit pubblico l’America deve fare i conti con un forte deficit commerciale (500 miliardi di dollari) e una fuga costante di capitali verso mercati più interessanti, ciò che sta indebolendo il dollaro. Per questo gli americani stanno cercando il modo di rendere la fattura il meno salata possibile. Per la ricostruzione non escludono di attingere alle entrate petrolifere irachene. In questi giorni le autorità americane hanno chiesto ad alcuni istituti di credito, tra cui l’Ubs, di mettere a disposizione i soldi iracheni congelati dopo la prima guerra del Golfo in seguito alle sanzioni dell’Onu. In 17 istituti di credito si troverebbero circa 1,7 miliardi di dollari. L’Ubs si è dichiarata disposta ad assecondare la richiesta per la sede americana. Questi soldi dovrebbero in realtà finanziare operazioni umanitarie. La decisione non ha mancato di provocare reazioni. In particolare il Partito socialista svizzero ha chiesto al governo elvetico di intervenire all’Onu per impedire che questi soldi siano impiegati dagli Stati Uniti. In questi giorni molte imprese statunitensi si apprestano a partire per l’Iraq. Il governo americano – secondo indiscrezioni di stampa – per il momento ha invitato solo un numero limitato di imprese a farsi avanti con progetti e proposte. Ha scelto le più grandi del paese. Tra i lavori da mettere in cantiere vi è il potenziamento del porto di Umm Qasr, importante per il commercio del petrolio. Poi bisognerà riparare o costruire aeroporti, strade, ponti, linee elettriche e ferroviarie, ma anche scuole, ospedali acquedotti e impianti di irrigazione, senza dimenticare gli impianti petroliferi che ormai sono vetusti. Le autorità americane hanno in particolare contattato le cinque principali imprese di costruzione del paese, che spesso hanno stretti legami con l’attuale amministrazione o con i vertici del Pentagono. E’ il caso della Kellogg, Brown & Root, il braccio edile della Halliburton, l’impresa che sino a tre anni fa era diretta da Dick Cheney, l’attuale vice presidente americano. Il nome di questa impresa appare spesso nelle commesse pubbliche americane. Era stata scelta per costruire il nuovo campo di detenzione di Guantanamo Bay per i prigionieri giunti dall’Afghanistan, che ormai da oltre un anno sono detenuti nell’isola di Cuba senza capi d’accusa o la speranza di un processo. La Kollegg, Brown & Root è già attiva in Kuwait. Secondo una recente inchiesta condotta da Corpwatch.org, un movimento per migliorare le condizioni di lavoro nel mondo, in settembre questa società ha ricevuto l’incarico di costruire gli accampamenti per migliaia di soldati e di garantire il supporto logistico necessario. L’esercito preferisce appaltare questi lavori perché le imprese private possono fare il lavoro a costi inferiori. Le società private ricorrono a personale locale e risparmiano così sui costi salariali. C’è poi la Bectel. La principale società d’appalti americana è nei guai a Boston per aver abbondantemente superato i costi preventivati nella realizzazione del Big Dig, il grande progetto stradale per decongestionare il traffico cittadino. Nel suo consiglio d’amministrazione siedono personaggi importanti come l’ex segretario di stato George Shultz. Le autorità hanno contattato anche la Fluor, che nell’aprile scorso ha assunto Kenneth Oscar, un ex alto dirigente al Pentagono. La lista può continuare con la Parson, che ha ottenuto vari appalti anche per la ricostruzione del Kosovo e della Bosnia e dove per un anno siedeva nel consiglio d’amministrazione l’attuale ministra del lavoro Elaine Chao. Naturalmente anche le imprese petrolifere americane (Chevron, Exxon, Texaco) e britanniche (Bp e Shell) attendono la fine del conflitto per poter accedere più liberamente al ricco mercato petrolifero iracheno. Si calcola che le riserve di petrolio irachene siano pari a 112 miliardi di barili. Ma secondo stime del governo americano le riserve potrebbero essere in realtà di oltre 400 miliardi di barili. Alla fine delle ostilità ci sarà molto lavoro da fare per le imprese che forniscono servizi alle società petrolifere. E’ il caso appunto della Halliburton che, guarda caso, ha ricevuto proprio lunedì un appalto per spegnere i pozzi in fiamme e per riparare le infrastrutture petrolifere danneggiate. Nei prossimi mesi ci sarà molto lavoro da fare per le imprese americane. Si calcola infatti che ci vorranno circa 18 mesi prima che l’Iraq ritorni ai livelli di produzione del periodo antecedente il primo conflitto del golfo. L’operazione, hanno calcolato gli esperti, costerà 5 miliardi di dollari. Poi comincerà la seconda fase, quella delle trivellazioni e della ricerca di nuovi giacimenti. Ma quella forse sarà un’operazione che potrà gestire il nuovo governo iracheno. Resterà da vedere a quali condizioni.

Pubblicato il 

28.03.03

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