È un evento che, alle nostre latitudini, è stato relegato nei meandri della memoria, ma a Bhopal, nel centro dell’India, la popolazione ne subisce ancora le conseguenze dopo 40 anni. Nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984, in una fabbrica di pesticidi non gestita adeguatamente, un serbatoio contenente un gas altamente tossico esplose diffondendo una nube che si propagò sulla baraccopoli vicina uccidendo uomini, donne, bambini e bestiame. Si stima che tra le 8.000 e le 10.000 persone siano morte solamente nei tre giorni subito successivi, ma questa catastrofe continua a mietere vittime tra le centinaia di migliaia di persone che sono state esposte al gas, e il bilancio attuale sarebbe di 22.000 morti. Invitata da Amnesty International Svizzera, Rachna Dhingra, coordinatrice della Campagna internazionale per la giustizia a Bhopal, si è di recente recata in Svizzera con suo marito Satinath Sarangi, fondatore del Sambhavna Trust, che fornisce assistenza gratuita alle vittime di Bhopal. Nell’intervista, ci spiega perché la lotta per ottenere giustizia è ben lungi dall’essere terminata. Rachna Dhingra, in India, la catastrofe di Bhopal ha ancora oggi delle ripercussioni. Quali? Alcune persone continuano a morire a causa dell’esposizione al gas. A Bhopal si registra un alto tasso di tumori e malattie croniche. Inoltre, ci sono molti problemi tra i bambini nati successivamente, che soffrono di lesioni multisistemiche e malformazioni congenite. Questo non riguarda solo il mezzo milione di persone che sono state direttamente esposte al gas, ma anche i 120.000 abitanti che vivono nei pressi della fabbrica abbandonata, una zona in cui le acque sotterranee sono inquinate da metalli pesanti e pesticidi. Questi inquinanti continuano a diffondersi nel sottosuolo e mietono ogni giorno nuove vittime. Oltre a ciò, le conseguenze sono anche socioeconomiche: i morti e le persone inabili al lavoro hanno spesso lasciato le loro famiglie senza reddito, e molti giovani non hanno potuto completare gli studi perché hanno dovuto iniziare a lavorare molto presto a causa di questa situazione. Molte di queste persone, dal basso livello di istruzione, sono oggi disoccupate. Il sito non è stato bonificato? Non solo non è stato bonificato, ma non è mai stata effettuata una vera e propria analisi scientifica riguardante la profondità e l’estensione dell’inquinamento. Sappiamo che quest’ultimo interessa un perimetro di diversi chilometri intorno allo stabilimento, ma il sito è sempre nelle stesse condizioni; il gruppo americano Dow Chemical [che nel 2001 ha acquistato la società Union Carbide, proprietaria dello stabilimento di Bhopal, ndr] si rifiuta di smaltire i rifiuti tossici che ne sono la causa. Secondo lei, questa catastrofe non è affatto una fatalità. È così. Non si è trattato di un incidente o di una semplice negligenza. È un crimine, il risultato di una decisione deliberata da parte del consiglio di amministrazione della Union Carbide di abbattere i costi in modo da aumentare i profitti. Così, per anni, hanno risparmiato sulla sicurezza e smesso di utilizzare il sistema di refrigerazione dei serbatoi contenenti il gas, in modo da risparmiare 70 dollari al giorno. A differenza del sito indiano, non versava nelle stesse condizioni quello che la stessa società gestiva in West Virginia, negli Stati Uniti, che era molto più sicuro. E nessuno è mai stato condannato per questo? No. All’epoca, l’amministratore delegato della Union Carbide, Warren Anderson, fu arrestato e accusato di omicidio colposo, ma fu rilasciato su cauzione e fuggì dall’India. In seguito si è sempre rifiutato di tornarvi per presentarsi davanti alla giustizia, e gli Stati Uniti hanno rifiutato di estradarlo. È morto, libero, nel 2014. Nel 2023 siamo riusciti a portare i responsabili della Dow Chemical davanti alla Corte di giustizia di Bhopal ma, in quanto società americana, non è stato possibile riconoscerle una responsabilità nell’ambito della giurisdizione indiana. Inoltre, la società non si ritiene responsabile di ciò che è accaduto prima che la Union Carbide venisse acquisita. Tuttavia, negli Stati Uniti, Dow Chemical si è però assunta le responsabilità di Union Carbide per quanto riguarda la questione dell’amianto: ciò dimostra che quando si tratta di Bhopal, vige un doppio standard. Il fatto che le vittime della catastrofe fossero principalmente persone povere, appartenenti ai ceti sociali inferiori, può spiegare questa impunità? Sì, ovviamente. I governi indiani che si sono succeduti nel tempo – indipendentemente dal partito al potere – sono stati in tutto e per tutto complici della Union Carbide e, poi, della Dow Chemical. La maggior parte delle persone colpite erano musulmane o indù, perlopiù appartenenti ai ceti sociali più poveri, considerate cioè sacrificabili. Perché il governo indiano, che inizialmente aveva chiesto 3 miliardi di dollari di risarcimento alla giustizia americana, alla fine ha ottenuto solo 470 milioni? Il governo ha accettato questa somma senza consultare un solo sopravvissuto e senza disporre di informazioni mediche sugli effetti a lungo termine del gas. Ignorava che i danni alla salute delle vittime erano permanenti e multisistemici e che non avrebbero colpito solo le persone direttamente esposte, ma anche le generazioni successive. Inoltre il governo temeva che, nel caso avesse chiesto troppo, avrebbe spaventato gli investitori stranieri. Non deve essere stata una somma molto consistente per ciascuna vittima... La maggior parte di loro ha ricevuto solo 500 dollari a titolo di risarcimento. E ci sono voluti dagli 8 ai 14 anni perché le persone interessate ricevessero questa somma, poiché dovevano dimostrare che i loro problemi di salute erano dovuti al gas, che erano permanenti e che impedivano loro di lavorare. Perché venire in Svizzera per parlare di questa catastrofe? La Dow Chemical ha uffici a Horgen, nel cantone di Zurigo. Andremo a trovare queste persone. Intanto, abbiamo portato loro dell’acqua di Bhopal e vogliamo che la bevano e la diano alle loro famiglie, proprio come sono costretti a fare gli abitanti di Bhopal. Siamo venuti anche per parlare del fatto che questo tipo di catastrofi non cesserà, perché è molto difficile assicurare alla giustizia le multinazionali responsabili di tali crimini: sanno che possono farla franca. Cosa chiedete oggi? Chiediamo un risarcimento per le persone che vivono nella zona inquinata e una bonifica completa del sito. Vogliamo anche che la Union Carbide riveli l’esatta composizione dei gas che sono fuoriusciti, informazione che da quarant’anni si rifiuta di divulgare in nome del segreto industriale. Senza questa conoscenza non possiamo davvero curare le persone: possiamo solo trattarne i sintomi. Soprattutto, infine, chiediamo giustizia. Non si può commettere un massacro di questa portata e rimanere impuniti. |