Di questi tempi si fa un gran parlare di giovani. Giovani violenti, giovani delinquenti, giovani disorientati, … La cronaca fornisce diversi spunti che puntualmente vengono commentati ed analizzati. C’è chi spiega i comportamenti devianti ricorrendo all’immigrazione, chi al consumismo, chi all’individualismo, chi alla perdita di valori, … Almeno su quest’ultimi una cosa si può dire: è perlomeno impertinente parlare di perdita di valori, dal momento che è nella loro natura quella di cambiare, ridefinendo così continuamente i comportamenti socialmente accettati e quelli che non lo sono. Per il resto, non è probabilmente uno solo dei vari fattori, ma il loro insieme che permette di capire le condotte di alcuni giovani. Stranamente assente, nei vari commenti, la questione lavoro. Questi, considerato in modo forzato come positivo aprioristicamente, non viene minimamente citato. Ma se osserviamo da vicino il mondo del lavoro odierno, non appare poi così azzardato invocare anche quest’ultimo come un fattore suscettibile di influenzare negativamente i comportamenti di alcuni giovani. Per almeno quattro motivi. Innanzi tutto l’ingresso nel mondo del lavoro ha viepiù assunto con il passare del tempo i caratteri di una vera e propria lotta. Se è vero per gli adulti professionalmente attivi che devono costantemente difendere il proprio posto, lo è altrettanto per quei giovani che cercano un posto di tirocinio e/o il loro primo impiego. La dimostrazione se non, addirittura, l’ostentazione del proprio valore, viene incoraggiata: in questo contesto la rivalità viene esaltata. Secondariamente, il mondo del lavoro di oggi propone una contraddizione faraonica: da una parte afferma una visione nichilista del mestiere, dall’altra viene magnificata la carriera. Da una parte, a chi lavora viene chiesto di essere pronto a cambiare professione diverse volte nel corso della propria vita, che è un po’ come dire ad un giovane ciò che fai oggi non avrà valore domani. Dall’altra, gli si chiede di pianificare i suoi obiettivi ed i suoi percorsi professionali, come se lui ne fosse padrone. In terzo luogo, assistiamo a lombardiane sceneggiate tragicomiche in cui la salvezza del lavoro viene invocata come bene supremo e giustificazione morale di dichiarazioni false e reati. Il fine (il lavoro) giustifica i mezzi (l’immoralità e l’illegalità). Infine, non possiamo dimenticare gli effetti che la disoccupazione e/o il precariato possono avere su quei giovani che per un motivo o per l’altro non riescono a sostenere e a vincere la lotta per un posto di lavoro. Da parecchio tempo, sociologi e psicologi vanno affermando che il lavoro è un luogo di socializzazione, che conferisce, tra le altre cose, pure un’identità. I giovani sono in una fase in cui la stanno ancora definendo e costruendo. Nel bene e nel male.

Pubblicato il 

25.06.04

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