I tristi fatti di Locarno, di cui già tanto s'è detto e scritto nelle ultime due settimane, che hanno portato alla morte del ventiduenne Damiano Tamagni hanno aperto di nuovo uno squarcio drammatico su una realtà ormai cronica, anche nella nostra so-cietà avanzata. La violenza, nelle sue forme più disparate è, volenti o nolenti, una parte costitutiva (ma non genetica!) delle collettività umane. Ce l'insegna la storia, segnata da fiumi di sangue, dagli orrori delle guerre, dai conflitti peri motivi più diversi, dai contrasti interpersonali o dai soprusi di ogni genere, giustificati talvolta dalle ideologie politiche o culturali, tal'altra dalle fedi religiose o dalle visioni filosofiche. Lo scorrere dei secoli e dei millenni indica pure che la violenza genera inevitabilmente violenza. Se nell'immediato può apparire risolutiva di una situazione di difficoltà, al lungo termine i costi in vite umane, infrastrutture e soprattutto rapporti sociali sono elevatissimi. Le ricostruzioni che fanno seguito a qualsiasi tipo di ostilità armata e no sono processi complessi e dolorosi, in particolare sul piano emotivo e relazionale. Al termine di una guerra, non basta riparare le case devastate o costruire nuovi ponti e fabbriche, è il tessuto umano e collettivo che necessitano di maggiori cure. Distruggere – e la cronaca ce l'insegna di continuo – è estremamente facile, ricostruire assai laborioso. Poiché la violenza provoca dolore, ma è pure indice di sofferenza, e quest'ultima non si allevia semplicemente con gli analgesici!
Il disagio giovanile, a mio avviso, che lo si voglia riconoscere o no, è una cartina di tornasole sulle condizioni reali di qualunque società. Sono di solito gli anelli ritenuti più deboli a spezzarsi per primi, quando la comunità subisce scossoni, e le conseguenze di tale rottura sono sovente tragiche: bullis, abuso di alcool, medicamenti o sostanze stupefacenti, depressione, associarti, incapacità di relazionarsi correttamente con le persone e le cose, suicidio. La violenza è spesso l'unico linguaggio conosciuto e usato, come un grido lacerante di aiuto non sempre espresso nelle modalità più comprensibili. E se come famiglie, istituzioni, scuole e società nel suo insieme è necessario evitare atteggiamenti buonisti o giustificativi all'eccesso, d'altronde mi sembra altrettanto inopportuno invocare misure drastiche da stato d'assedio permanente. Non è vero che tutti i giovani sono violenti, come non è esatto sostenere che la violenza è principalmente un prodotto d'importazione.
Di fatto, per spezzare la pericolosa deriva dell'aggressività senza limiti, né canali, che può contagiare non soltanto le fasce sociali più giovani, bensì la collettività nella sua totalità, credo che sia necessario ricominciare a dialogare, riconoscendo ad ognuno il diritto di esistere e di esprimersi. L'esclusione di chicchessia mi pare essere una scorciatoia a basso costo, rischiosa quanto il rafforzamento dei dispositivi repressivi non accompagnati da un'adeguata prevenzione.

Pubblicato il 

15.02.08

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