Negli scorsi giorni, sono stati anticipati dalla stampa i risultati più eclatanti (e preoccupanti) di una ricerca promossa dalla Polizia cantonale ticinese sul disagio giovanile. Sono non meno di una cinquantina di ragazzi "in rottura" con la famiglia e l'ambiente scolastico o lavorativo, recensiti dall'analisi in questione. Si tratta, in parte, di adolescenti con i quali i genitori non sono più in grado d'interagire in maniera costruttiva e le cui prospettive formative e professionali sembrano ormai estremamente ridotte. Sono giovani in difficoltà, sia svizzeri che stranieri, spesso con un passato pesante alle spalle (costellato magari di violenza subita, di affetti ed attenzioni negate, di solitudine, ecc), privi di veri punti di riferimento, costantemente tentati dalle svariate forme di devianza presenti nella nostra società. Lo studio "Visione Giovani" s'interroga ovviamente sulle risposte che le forze dell'ordine possono dare ad una situazione in fase di degrado (lento, certo, ma effettivo). E non sorprende che le proposte formulate parlino di contenimento del fenomeno, di prevenzione dei comportamenti maggiormente "a rischio" (segnati da microcriminalità, consumo di sostanze illegali ed alcool o aggressività), di costante monitoraggio dei ragazzi problematici e di repressione degli atti di rilevanza penale.
Non c'è che dire: anche in questo campo, la polizia esegue il compito affidatole e, nella fattispecie, rileva degli indizi per prepararsi ad affrontare una realtà in crescita. Desta tuttavia qualche perplessità il fatto che, da quanto è dato per ora sapere sulla ricerca, vi siano stati coinvolti soltanto dei poliziotti, cioè degli agenti che si trovano in un qualche modo già al fronte e quindi registrano le espressioni più gravi di atteggiamenti da tenere sotto controllo. Qual è, per contro, lo spazio concesso agli "operatori giovanili" (in senso ampio: genitori, insegnanti, educatori, assistenti sociali, curatori o tutori, medici, ecc.), a coloro che dovrebbero osservare il fenomeno con occhi diversi e, di conseguenza, fornire risposte differenti dalla pura e semplice punizione? E quale ruolo ci ritagliamo, come singoli cittadini e come collettività, nell'affrontare una situazione che, senza trasformarla immediatamente in catastrofe sociale, necessita di soluzioni differenziate, non univoche? È illusorio credere che la repressione sia la sola maniera di debellare condotte inadeguate e persino criminose.
Purtroppo spesso il castigo è la scorciatoia che la "gente" ed i suoi rappresentanti (politici e no) preferiscono imboccare, per risolvere nell'immediato un problema complesso. Senza nulla scusare, i ragazzi che hanno rotto i ponti con l'ambiente familiare e sociale manifestano esigenze assai profonde e degne di reale considerazione. È vero, talvolta lo fanno in modo improprio, ma essi esprimono bisogni scomodi, poiché mettono in discussione i modelli culturali e spirituali che noi adulti offriamo loro con poco senso critico. Forse, più delle manette, questi giovani chiedono maggiore coerenza etica.

Pubblicato il 

27.10.06

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