Che ne direste di lavorare 15 ore il giorno per una paga di tre dollari? Eppure è questo il salario che percepiscono molte donne cinesi occupate nelle fabbriche di giocattoli. Lo rileva un recente studio della National Labor Committee, una organizzazione statunitense vicina al movimento sindacale, che ha esaminato le condizioni di lavoro in varie fabbriche della Cina meridionale che producono giocattoli destinati al mercato statunitense.
Le testimonianze sono agghiaccianti. «Siamo stanche» ammettono all’unisono le donne confessando le pesanti condizioni di lavoro. Nei mesi di punta, quelli che precedono il Natale, lavorano praticamente 12-15 e più ore al giorno, sette giorni alla settimana e hanno solo un giorno libero al mese. La paga è mediamente di 20 centesimi all’ora, ma non sono rari casi di donne che guadagnano meno di 10 centesimi all’ora, mentre il salario minimo legale è di circa 30 centesimi all’ora.
Ben pochi americani, ma anche europei, sono consapevoli di tutto questo. Eppure sempre più spesso provengono proprio dalla Cina i giocattoli (circa il 70 % del consumo) dei bambini occidentali. È un giro d’affari favoloso, valutato, solo per gli Stati Uniti, a oltre 23 miliardi di dollari all’anno. Mediamente ogni bambino americano riceve ogni anno giocattoli per circa 350 dollari.
Provengono dalle fabbriche della Cina i giochi di Harry Potter, i pupazzi della Disney, i personaggi di Star Wars o le Barbie della Mattel. Controllare le condizioni di lavoro della fabbriche cinesi non è facile. Solo nella regione meridionale del Guangdong ci sono quasi 3000 imprese che occupano 3 milioni di persone. Si tratta per lo più di giovani donne che sono sottoposte a ritmi estenuanti.
«Siamo pagate poco. Non mangiamo abbastanza. Dormiamo poco. Vogliamo risparmiare ogni centesimo che guadagnamo. A pranzo, c’è chi si limita a comprare un gelato o una fetta di melone» così riassume la situazione una ragazza protetta dall’anonimato, come tutte le testimonianze riportate nello studio «Toys of Misery» (giocattoli di miseria) «made in China».
Le giovani spesso lavorano e dormono in locali pericolosi e insalubri. «Lavoriamo in locali dove la temperatura può arrivare anche a 40 gradi. I macchinari fanno rumore e riscaldano. L’aria è impregnata di un forte odore di sostanze chimiche» afferma un’altra operaia. Finito il lavoro, le ragazze, che in genere hanno meno di 25 anni, si ritrovano a passare la notte in affollati dormitori, dove scarseggiano i servizi igienici e dove per poter fare la doccia si deve restare in fila per ore. Chi arriva per ultima rischia di non trovare più acqua.
Molte operaie usano quotidianamente colle tossiche o coloranti velenosi, ma non sono state adeguatamente informate o istruite sulla pericolosità dei prodotti. «Ho lavorato per tre anni nel reparto verniciatura. Ho sempre sospettato che i colori fossero pericolosi. Quando lavoravo in quel reparto ero sempre malata» afferma un’altra intervistata.
L’inchiesta ha costatato che le operaie non fanno quasi mai uso di guanti o di maschere protettive. Lavorano ad un ritmo molto sostenuto perché devono produrre un numero di pezzi ben definito. Per raggiungere gli obiettivi c’è chi sgobba da pranzo a cena senza sosta.
Altro punto dolente è quello della protezione maternità, che di fatto è riservata solo ai quadri. Le operaie lavorano fino a poco prima del parto e dopo molto spesso i datori di lavoro le invitano a prendere una vacanza, che di fatto corrisponde sempre ad un licenziamento. Anche i diritti sindacali sono difficili da far rispettare.
Per le catene di distribuzione americane produrre in Cina è conveniente. Il rapporto fa l’esempio di giocattoli pagati poco meno di due dollari al pezzo e rivenduti in America per 13 dollari. L’incremento era di oltre il 600 %. Si risparmia sui salari, ma si spende invece moltissimo per la pubblicità. Solo nel 2000 si sono spesi quasi 850 milioni di dollari per invogliare a comprare giocattoli.
Il rapporto ha preso in contropiede i distributori americani, che hanno cercato di contestare i dati e di mettere in risalto quanto già fanno per fronteggiare questa situazione. I fatti dimostrano che non basta. E allora cosa può fare il consumatore?
«Non chiediamo alla gente di boicottare l’acquisto di questi prodotti» affermano i promotori del rapporto, che in passato avevano denunciato lo sfruttamento dei bambini o le ingiuste condizioni di lavoro in altri paesi in via di sviluppo. Invece i consumatori sono invitati a far pressione sui distributori, a spedire loro messaggi invitandoli a rendere noti i nomi delle fabbriche cinesi dove si producono i loro giocattoli, a sostituire le sostanze tossiche con altre non pericolose e a rispettare le condizioni di lavoro fissate per legge, vale a dire una settimana lavorativa di 40 ore e di cinque giorni. E l’esperienza insegna, che questo tipo di pressioni alla lunga pagano.
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