Gianni Frizzo, uno di "loro"

Le mani sul passaporto svizzero. Con questa immagine rispolverata dal passato l'Udc sta cercando di veicolare il messaggio che troppe sono le naturalizzazioni e troppi sono gli stranieri che vogliono diventare cittadini ricorrendo alle facilitazioni di una procedura che i democentristi reputano troppo semplice e generosa. Una procedura che però alla luce dei fatti, come abbiamo mostrato nel numero di settimana scorsa di area, non è né così semplice né generosa nei confronti di coloro che vogliono ottenere la cittadinanza elvetica. La votazione popolare sull'iniziativa "Per naturalizzazioni democratiche", sulla quale saremo chiamati a votare il 1° giugno, vuole rimettere in mano popolare la decisione scaturita dal processo naturalizzazione. Quindi niente più amministrazioni comunali che vagliano le richieste, ma un consiglio formato da cittadini che giudica se il postulante è degno di ricevere il passaporto rossocrociato o meno. L'Udc vuole inoltre escludere la possibilità di ricorso, oltre che di una giustificazione alla decisione negativa presa dai cittadini. La polemica sulle naturalizzazioni "politiche" era nata dopo che nel 2003 con due sentenze il Tribunale federale aveva di fatto obbligato i Comuni ad adottare procedure conformi ai principi dello Stato di diritto, che includessero cioè un diritto di ricorso. Ad aver fatto scalpore era stato soprattutto il caso di Emmen in cui i giudici avevano trovato discriminatorio il fatto che ad essere rifiutati erano sistematicamente le richieste di singoli individui e intere famiglie di origine balcanica. E che per di più non fosse loro concesso di conoscere il motivo di tale rifiuto. "Un attacco alla sovranità del popolo" aveva allora tuonato l'Udc che aveva cercato di far passare la propria iniziativa per contrastare la decisione del Tribunale alla Camere. Ma sia agli Stati, che al Nazionale l'idea democentrista non era passata. Ma al di là della questione delle naturalizzazioni che dovrebbero essere o un semplice atto amministrativo, dove la richiesta deve adempire delle regole ben precise ed essere vagliata da funzionari comunali, oppure – come vuole l'Udc – una decisione politica, in cui il cittadino di un comune o il vicino del postulante possa decidere se colui che chiede il passaporto svizzero ne sia degno, ci sono dei dati di fatto.
Come ad esempio che la Svizzera è già – come altri paesi Occidentali – di fatto un paese di naturalizzati. Pensate ad esempio alla nazionale di calcio, quanti giocatori non ci sarebbero? Oppure a molti politici, anche quelli che militano proprio nell'Udc. Oppure a quello che per noi ticinesi ha rappresentato e rappresenta il Gottardo, o quello che è il Röstigraben fra svizzero tedeschi e francesi.
Anche Gianni Frizzo, il leader dello sciopero delle Officine di Bellinzona, fa parte di questa realtà svizzera. "Gianni Frizzo, uno di noi" hanno detto all'unisono i politici, destra compresa, durante l'intero mese di sciopero in cui sono scesi in piazza. Eppure anche lui, come ci racconta di seguito, ha vissuto la procedura di naturalizzazione sulla sua pelle.


«Sono nato in Svizzera da genitori italiani, ci ho fatto le scuole, sedevo agli stessi banchi dei miei compagni di scuola, i miei lavoravano ed abitavano qui, ci pagavano le tasse. Eravamo come tutte le altre famiglie. Eppure quando a 23 anni ho chiesto di diventare svizzero a San Vittore, dove sono cresciuto, non ho potuto presentare la richiesta», racconta Frizzo alla Casa del popolo di Bellinzona.
San Vittore già nel 1979 aveva infatti deciso che non sarebbero più stati concessi passaporti svizzeri. A Gianni Frizzo era toccato allora chiedere l'attinenza a un altro comune (operazione oggi non più possibile poiché si richiedono 3 anni di residenza nello stesso paese oltre che 12 anni di permanenza in Svizzera, ai tempi di Frizzo era sufficienti 10 anni).
San Vittore non ha negato solo la cittadinanza a Frizzo, recentemente era stata protagonista di un altro rifiuto, quello alla famiglia Radanovic (si veda area n.40 del 5 ottobre 2007). In quell'occasione Reto Togni, presidente del Patriziato comunale, aveva scritto coraggiosamente alla famiglia di Michela e Goran Radanovic: «I motivi che hanno spinto i nostri cittadini a respingere la vostra domanda sono difficilmente individuabili anche per il Consiglio Patriziale. Di negativo non si è riscontrato alcun fatto. È purtroppo una tradizione atavica che si ripete: a San Vittore la stragrande maggioranza delle richieste vengono respinte, senza motivazioni vere e proprie. Si vede che siamo in pochi (88 persone con diritto di voto) ed in pochi vogliamo restare. Spiacenti di non aver potuto accogliere la vostra richiesta, distintamente salutiamo».
«Una frase – dice Frizzo – che spiega da sola tutta l'arbitrarietà che ci può essere in una procedura in cui decisioni incomprensibili presi da una minoranza possono decidere il destino di una famiglia rispettabile e rispettosa. Non capisco perché se tutte le carte sono a posto, la fedina penale è pulita ci si debba anche piegare ad una valutazione della propria persona come se si fosse un cavallo a cui guardare in bocca».
Ma se l'integrazione c'è già che cosa spinge una persona residente da 12 anni in Svizzera a chiedere il passaporto? «Io ad essere sincero non ne sentivo la necessità – risponde Frizzo–. Ero come tutti gli altri. Non mi sentivo diverso, avevo solo un altro passaporto. Credo che una persona che risiede da 12 anni in Svizzera, che si è comportata bene, che non ha precedenti penali, possa ritenersi parte di quel territorio. Familiare alle persone che lo circondano e del modo di vivere comune che ha conosciuto. Solo a 23 anni avevo pensato che era giusto diventare svizzero. Partecipavo in tutti i sensi alla vita del posto in cui vivevo, avevo cominciato a lavorare alle Officine, ma mi rendevo conto che oltre ai doveri e diritti di cui già godevo non potevo fare una cosa fondamentale: non avevo diritto di partecipare alla vita politica».
Strano che proprio il partito di Christoph Blocher, che quando era al governo diceva di voler puntare ad una maggiore integrazione degli stranieri, si trovi ora a voler mettere dei freni al punto di arrivo che dovrebbe portare proprio il processo di una buona integrazione: il passaporto svizzero. «Oppure – rilancia Frizzo –, se davvero si vuole essere coerenti fino in fondo discutiamo una volta tanto di dare il diritto di voto anche agli stranieri. Se si dice che oggi non c'è differenza in Svizzera, se si è con o senza il passaporto elvetico, che si gode degli stessi diritti, si abbia la coerenza di concedere il diritto di  voto e di eleggibilità a chi paga per delle decisioni politiche su cui però non è mai chiamato ad esprimersi».  

Pubblicato il

16.05.2008 02:00
Can Tutumlu