La mano invisibile

Si parla sempre più spesso di robot. Robot che automatizzano il lavoro e sostituiscono l’uomo ormai in tutti i settori: nella produzione industriale, in quella agricola, nei servizi, nella medicina, nell’amministrazione. Se ne parla per tre motivi: perché tolgono lavoro all’uomo (creerebbero disoccupazione); perché riducono comunque la massa salariale, il potere d’acquisto e quindi i consumi, pilastro  dell’economia (per chi si produrrà, anche se a minor costo?); perché, non pagando contributi assicurativi, minacciano le assicurazioni sociali (fondate sul reddito da lavoro).


Le discussioni ruotano attorno a due questioni essenziali. Sapere se la robotica crea effettivamente disoccupazione oppure, com’è avvenuto per altri rivoluzioni industriali, non crei invece altre occupazioni, più specializzate (ci vuole pure chi inventi e costruisca i robot, chi li mantenga in esercizio, chi li sostituisca ecc.). Sapere se bisognerà paragonare un robot a un salariato e quindi prelevare anche sui robot tasse e contributi alle assicurazioni sociali. Sulla prima questione ci sono studi contrastanti, anche se tende a prevalere l’opinione che non si può paragonare la robotica alle rivoluzioni precedenti: in realtà distrugge più posti di lavoro di quanti  ne crei. Sulla seconda questione c’è un’opposizione già accanita: il robot serve a mantenere la competitività diminuendo i costi di produzione, sarebbe da folli caricargli addosso tasse o oneri assicurativi.
Vorrei qui accennare ad un approfondito studio appena apparso in Germania per scoprire una faccia del problema che emerge certa. Lo studio è di quattro ricercatori di altrettanti istituti universitari (German Robots, settembre 2017). È interessante perché la Germania è una delle maggiori utilizzatrici di robot e li produce pure. Ma soprattutto, perché gli autori hanno sfruttato tutte le informazioni concernenti il percorso dei salariati toccati dalla robotizzazione. Alcune conclusioni possono lasciare di stucco: non si può sostenere che la Germania abbia perso globalmente posti di lavoro a causa dell’automatizzazione. C’è stato uno spostamento di posti di lavoro verso altri settori. È vero che dove entrano i robot non si assume più. Si constata comunque che un robot in più comporta due posti di lavoro in meno nell’industria manifatturiera. Nei venti anni esaminati c’è infatti stata una perdita di 275.000 posti di lavoro nell’industria a causa dell’introduzione dei robot (un quarto del declino generale dell’occupazione nel settore). Queste perdite sono state compensate da altri lavori.

 

La “scoperta” fatta dal meticoloso studio è un’altra. Il lavoratore che rimane ancora nella sua azienda nonostante l’automatizzazione o che riesce ancora a trovare posto altrove subisce una forte perdita di salario se non è altamente qualificato (ingegnere o manager). Gli stessi sindacati sarebbero pressoché costretti ad accettare salari molto più bassi per salvaguardare l’occupazione.


Non si può quindi sostenere, come sembrano sostenere alcuni nostri politici, accademici, esponenti di organizzazioni economiche, che la robotizzazione sia un fatto aneddotico (la paragonano spesso alla macchina a vapore): è un fatto innegabilmente sconvolgente e da prendere sul serio per la vita dell’uomo, per la società, per la stessa economia (che si regge sul lavoro, il reddito da lavoro, il potere d’acquisto). Parlare di imposte sui robot oppure di reddito di cittadinanza non è né follia né utopia.

Pubblicato il 

12.10.17
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