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Germania, il ricatto estivo

di

Tommaso Pedicini
Lavorare di più e guadagnare di meno. No, non si tratta di un paradosso ma del tormentone ripetuto fino alla nausea dai rappresentanti delle imprese, dai politici neoliberisti, da sedicenti esperti di economia e dai commentatori televisivi in questa breve estate tedesca. Il tutto è iniziato quando, a cavallo tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, la Siemens, il colosso tecnologico di Monaco di Baviera, approfittando della scadenza contrattuale, ha messo i rappresentanti dei lavoratori di fronte ad un ricatto senza precedenti: o acconsentite a prolungare l’orario di lavoro in alcuni settori nevralgici dell’azienda dalle attuali 38 ore settimanali a 40, senza adeguamento salariale, o trasferiamo buona parte della produzione nell’Est europeo. Davanti alla prospettiva di andare ad infoltire il crescente esercito di disoccupati, i lavoratori della Siemens, dopo lunghe discussioni e divisioni interne, hanno accettato a denti stretti il diktat della direzione. Da quel giorno sui mass media di ogni ordine e grado si è aperta una discussione (o per meglio dire un monologo, visto che ai dissenzienti è stato garantito ben poco spazio) sulla necessità di estendere il modello Siemens al sistema Paese al fine di far uscire l’economia federale dalla crisi. Dal presidente della Repubblica, l’ex direttore del Fondo monetario internazionale Horst Köhler, al presidente della Confindustria tedesca, Michael Rogowski, ai vertici della Cdu e della Fdp, più o meno tutti i rappresentanti dei poteri forti hanno recitato la loro parte in commedia. Qualcuno, come il capo dello Stato, ha usato toni pacati, invitando i tedeschi a essere «più flessibili per tenere testa alla concorrenza internazionale». Altri, come il leader cristianosociale bavarese Edmund Stoiber, hanno affrontato l’argomento di petto, invocando un aumento generalizzato da 38 a 40 ore della settimana lavorativa, senza adeguamenti salariali. Qualche provocatore, come l’economista Klaus Zimmermann, si è spinto addirittura oltre, arrivando ad affermare che anche 50 ore di lavoro alla settimana «sarebbero un’ipotesi percorribile.» Dopo una breve interruzione vacanziera nelle prime due settimane di agosto, la campagna mediatica per il prolungamento dell’orario di lavoro a parità di salario è ripresa negli ultimi giorni più martellante che mai. Di fronte a tanto chiasso un solo silenzio assordante: quello del cancelliere Schröder e di una maggioranza che nel proprio programma elettorale aveva messo al primo posto la tutela dei diritti dei lavoratori. Norbert Flach, segretario regionale del sindacato del terziario Ver.di-Baviera, è stato uno dei primi, insieme ai rappresentanti dei metalmeccanici, a lanciare l’allarme contro l’offensiva padronale sull’orario di lavoro. Secondo Flach la Confindustria tedesca, spalleggiata dai partiti conservatori e dalla quasi totalità dei mezzi di informazione, e col tacito assenso del governo Schröder, ha lanciato una campagna ultraliberista di proporzioni mai viste prima. «La discussione divampata all’inizio dell’estate, dopo l’accordo sul prolungamento dell’orario di lavoro senza adeguamento salariale alla Siemens, e ripresa in questi giorni, è una chiara manovra per far credere all’opinione pubblica che solo lavorando di più si può far uscire l’economia tedesca dalla crisi e ridurre la disoccupazione – spiega Flach –. In realtà siamo di fronte al tentativo di far passare una controriforma del tutto ingiustificata.» A suo avviso, quindi, il prolungamento dell’orario di lavoro non è uno strumento in grado di contribuire alla crescita economica? In Germania, al momento, si lavora in media 38 ore la settimana. Questa, intendiamoci, è la cifra sulla carta, quella prevista dai contratti nazionali. Se andiamo, però, a vedere la durata effettiva della settimana lavorativa del tedesco medio scopriamo che il dato si aggira già oggi attorno alle 40 ore (39,8 tanto per essere precisi). Gli orari di lavoro da noi sono, quindi, in perfetta media europea (si veda anche box accanto): non siamo certo un popolo di scansafatiche come vorrebbero farci credere. Inoltre la produttività tedesca, nonostante la crisi internazionale, è sempre tra le più alte al mondo. Quanto poi al fatto che prolungando la settimana lavorativa si creerebbero nuovi posti di lavoro, quella è una favola. L’aumento della settimana lavorativa a parità di salario abbassa sì i costi per le imprese, ma non crea nemmeno un posto di lavoro in più, anzi tende a distruggerne a migliaia. Far lavorare di più un lavoratore significa precludere ad un disoccupato ulteriori possibilità di impiego. E poi non dimentichiamo che lavorare di più, senza adeguamento salariale, significa buste paga più leggere e quindi meno capacità d’acquisto. Me lo dicono, allora, i signori di Confindustria da dove dovrebbe nascere la ripresa se i lavoratori non possono spendere? Eppure il sindacato sembra piuttosto isolato nella sua battaglia. Certo, con quasi tutti i mezzi d’informazione che ci danno addosso, accusandoci di bloccare la ripresa solo perché difendiamo diritti sacrosanti, non è mica facile. Eppure basterebbe essere un po’ meno miopi e guardare a quei Paesi, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa, dove l’applicazione delle formule neoliberiste, lungi dal creare maggiore occupazione e benessere diffuso, ha solo arricchito un ristretto ceto di imprenditori. State pensando ad una mobilitazione in grande stile contro l’introduzione generalizzata delle 40 ore? Noi siamo disponibili ad un confronto sulla flessibilità dell’orario di lavoro con le singole imprese. Solo che per noi la flessibilità non deve venire solo dai lavoratori, ma anche dal padronato. Non è possibile che aziende con profitti da sogno e i cui manager guadagnano fino a 300 volte più di un operaio pretendano sacrifici dai propri dipendenti. Si può anche parlare di aumentare le ore di lavoro settimanali in contesti specifici, ma certo mai a parità di salario. Se da parte di Confindustria continuerà a prevalere la filosofia dell’“accettate le nostre richieste o trasferiamo gli impianti all’estero, dove il lavoro costa meno”, la nostra risposta sarà durissima. E non mi sembra che di questi tempi in Germania manchino le persone disposte a scendere in piazza per la tutela dei propri diritti, nonostante le bugie dei nostri avversari e lo scandaloso silenzio del governo. La Germania riparte da Lipsia Cinquantamila il 9 agosto, ottantamila il 16 e oltre centomila persone in piazza lunedì scorso. In Germania la protesta contro i tagli al sistema sociale aumenta di settimana in settimana e qualcuno già traccia un parallelo tra questa protesta popolare e le dimostrazioni che, nel 1989, portarono al crollo del Muro di Berlino. Stesso l’appuntamento settimanale (il lunedì), stessa la città in cui il tutto ha avuto origine (Lipsia) e identica la spontaneità dei due movimenti. Senza scomodare complessi paralleli storici, una cosa, però, appare certa: il governo del cancelliere Gerhard Schröder ha incontrato in queste piazze piene di gente arrabbiata un ostacolo inatteso nel suo corso politico sempre più marcatamente liberista. L’introduzione di ticket sanitari, l’aumento dell’età pensionabile, l’approvazione di norme che facilitano i licenziamenti e privilegiano il lavoro interinale, i tagli agli assegni di disoccupazione e la riduzione della loro durata, insomma tutti i provvedimenti approvati dalla maggioranza rosso-verde di comune accordo con l’opposizione conservatrice negli ultimi 18 mesi, sono stati subiti, senza particolari proteste dai lavoratori tedeschi. Certo, i sindacati si sono opposti alla politica del cancelliere e la Spd ha pagato a carissimo prezzo, in termini elettorali, la propria politica in tutte le elezioni amministrative degli ultimi mesi. Eppure il cosiddetto processo di “modernizzazione” del walfare tedesco – che, secondo il cancelliere, dovrebbe garantire al Paese “un sistema di sicurezze sociali anche per il futuro” – finora non aveva dovuto fare i conti con il rifiuto dei diretti interessati. La goccia che ha fatto traboccare il vaso della protesta porta lo strano nome di Hartz IV, dove Hartz sta per Peter Hartz, il top manager della Volkswagen (che proprio lunedì ha presentato un drastico piano di risanamento del gigante dell’automobile che prevede tra l’altro il blocco dei salari per due anni e un maggior onere lavorativo per i dipendenti più giovani). Schröder ha voluto Hartz a capo della commissione di saggi incaricata di varare il piano di tagli allo stato sociale, e IV è il numero romano che indica la quarta ed ultima parte del pacchetto di misure approvate. Hartz IV contiene, non a caso, i provvedimenti più pesanti a carico dei disoccupati e dei più poveri. Con esso si sancisce, infatti, la riduzione del sussidio di disoccupazione (Arbeitslosenhilfe) al livello del sussidio di solidarietà sociale (Sozialhilfe). Aumentano invece le complicazioni burocratiche: il disoccupato deve dimostrare di non possedere alcun risparmio o di non avere partner, genitori o figli che possono mantenerlo e, inoltre, può vedersi obbligato ad abbandonare la casa in cui abita se l’ufficio affari sociali del suo comune di residenza ritiene che il suo affitto sia troppo alto per un una persona nelle sue condizioni economiche. Ma c’è di più, il disoccupato può essere costretto ad accettare lavori completamente diversi dalla sua formazione professionale, pena ulteriori tagli al proprio già misero sussidio. Un bel serbatoio di manodopera a bassissimo costo per la gioia delle imprese. La riforma che Schröder si era lasciato per ultima, consapevole della sua durezza, è riuscita a smuovere una buona fetta di opinione pubblica che, prima spontaneamente, poi con l’appoggio della Pds, dei sindacati del terziario, Ver.di, e metalmeccanico, Ig Metall, e di organizzazioni antagoniste come Attac, ha cominciato a riempire le piazze. Per il momento la protesta è concentrata soprattutto nelle regioni orientali, ma si sta estendendo velocemente anche a Ovest. Lunedì di questa settimana si è manifestato in almeno 150 città tedesche e per il 30 agosto a Lipsia è atteso anche il gran rientro in politica di Oskar Lafontaine, l’ex leader della Spd, uscito dal primo governo Schröder, in cui ricopriva il dicastero delle finanze, per contrasti insanabili col cancelliere sulla politica economica. E nessuno crede che “Oskar il rosso” si limiterà a fare da oratore. Cresce la protesta alla politica neoliberista «Se riusciremo a sconfiggere la Santa Alleanza neoliberista del governo Schröder con l’opposizione conservatrice ed i potentati economico- finanziari ancora è difficile dirlo, ma di certo una mobilitazione popolare di queste dimensioni in Germania non si vedeva da tanto tempo». Malte Kreutzfeld, portavoce di Attac, Germania, è euforico per il nuovo successo riscosso dalle manifestazioni contro i tagli al walfare tenutesi, come ormai d’abitudine da qualche settimana a questa parte, anche lunedì scorso in almeno 150 città tedesche. Le cifre ufficiali parlano di oltre centomila manifestanti in tutto il Paese, ma per Attac, i comunisti della Pds e ampi settori dei sindacati che coordinano le azioni di protesta i numeri vanno corretti al rialzo. Signor Kreutzfeld, come è nata l’idea di queste manifestazioni? A prendere l’iniziativa sono state le persone singole, i cittadini meno abbienti, quelli, insomma, maggiormente colpiti dai tagli allo stato sociale. Solo in un secondo momento siamo entrati in gioco noi, la Pds e i sindacati. In alcuni casi sono stati singoli disoccupati a convincere un gruppo di amici a scendere in piazza con loro, in altri sono stati i socialforum di città come Berlino, Magdeburgo o Lipsia ad organizzare appuntamenti informativi sulle conseguenze dell’Hartz IV e, al termine degli incontri, la gente è scesa nelle strade per rendere visibile il proprio dissenso. La protesta è nata soprattutto nei Länder orientali, dove la povertà e la disoccupazione sono notevolmente più accentuate che all’Ovest. Per il fatto di aver avuto inizio nella ex Ddr, le manifestazioni si ricollegano dimostrazioni di massa che nel 1989 portarono al crollo del regime. Con la scelta del lunedì come appuntamento settimanale per gridare la propria rabbia ci si vuole ricollegare, infatti, a quel momento della storia tedesca. E proprio questo non va giù ai vostri avversari che vi accusano di appropriarvi di un’eredità che non vi appartiene… La tipica polemica di chi non trova argomenti migliori da contrapporre alle nostre critiche sul merito dello smantellamento del sistema di sicurezza sociale. Nell’89 la gente manifestava per più libertà e contro uno stato di polizia già al tracollo. Oggi - e guardi che in tantissimi casi si tratta delle stesse persone di allora - si scende in piazza per più giustizia sociale e per far rispettare ai nostri governanti diritti sanciti dalla Costituzione. Oggi come allora si tratta di un movimento dal basso del tutto spontaneo. Mi sembra, quindi, che i punti in comune, a 15 anni di distanza, siano notevoli. Altra accusa che vi viene rivolta è che alle manifestazione del lunedì prendono parte anche gruppi neonazisti. Non vede un pericolo di strumentalizzazione della protesta da parte dell’estrema destra? Sì, i neonazisti ci provano, ogni lunedì, ad infiltrarsi nei nostri cortei, ma chi ci accusa dovrebbe anche riconoscere che si tratta di quattro gatti che i manifestanti finora sono sempre riusciti ad emarginare. È chiaro che l’estrema destra tenta di strumentalizzare la crisi economica e la crescente disoccupazione in chiave nazionalista, ma, parliamoci chiaro, chi li sta a sentire? Tra gli oratori dei comizi che chiudono i cortei settimanali spesso ci sono anche dei concittadini di origine straniera che ci fanno presente come loro siano le prime vittime della politica neoliberista. No, chi cerca di far passare le dimostrazioni del lunedì per un “progetto comune di opposti estremismi” manca di onestà intellettuale. La vostra protesta si sta rivelando un grande successo, ma cosa sperate di ottenere concretamente? Hartz IV è solo l’ultimo di una lunga serie di tagli al walfare che nell’ultimo anno e mezzo ha colpito la sanità, le pensioni, la tutela contro i licenziamenti e i sussidi di disoccupazione e di povertà. Le nostre critiche si rivolgono, quindi, a tutto l’impianto neoliberista della politica del governo Schröder. Anche noi mettiamo al primo posto la lotta alla disoccupazione, ma diciamo che essa va condotta con metodi diametralmente opposti. A chi propone di aumentare la settimana lavorativa a parità di salario, noi rispondiamo che solo la diminuzione generalizzata dell’orario di lavoro può portare più impieghi. A chi taglia i sussidi per disoccupati ed indigenti, noi facciamo notare che prima si devono ridurre i privilegi fiscali per le imprese, si deve rinunciare al progetto di diminuire le tasse ai redditi più elevati e che vanno tassati i proventi derivanti dal mercato azionario e le rendite. A chi vuole dividere sempre più la società in due classi, noi rispondiamo che la Costituzione garantisce pari diritti e prestazioni per tutti i cittadini. So che le nostre controproposte non verranno nemmeno considerate dal governo e dai guru dell’economia tedesca, ma, almeno, a sempre più persone in Germania sarà chiaro che il neoliberismo non è una legge della natura e che un altro mondo è veramente possibile. E se questo movimento diventa maggioranza nel Paese, allora chissà…

Pubblicato

Venerdì 27 Agosto 2004

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