L’esercito israeliano, con il disco verde di Washington, ha rotto la tregua con Hamas, siglata lo scorso 19 gennaio. Dopo quattro giorni di raid sono almeno 590, soprattutto donne e bambini, i palestinesi uccisi a Rafah, Khan Yunis e Beit Lahia, dopo le 48mila vittime causate dalle operazioni militari dell’esercito israeliano (IDF) dallo scorso 7 ottobre 2023.

 

Le autorità israeliane hanno avvisato che i raid hanno lo scopo di colpire i vertici di Hamas, secondo loro impegnati a organizzare nuovi attentati terroristici. Il movimento che governa Gaza aveva avviato negoziati diretti con gli Stati Uniti per arrivare alla difficile seconda fase della tregua che sarebbe dovuta iniziare il 1° marzo con il rilascio degli altri ostaggi ancora nelle mani del gruppo (oltre 50 di cui 22 sarebbero ancora in vita).

 

Sul fallimento dei colloqui ha pesato molto il piano di ricostruzione di Trump per realizzare la “Riviera del Medio Oriente” a Gaza, rimandato al mittente dai principali paesi arabi della regione, insieme agli attacchi delle milizie Houthi, partiti dallo Yemen contro Israele nei giorni scorsi, e che hanno motivato le operazioni militari statunitensi a Sanaa che hanno causato almeno 31 morti.

IDF ha anche emanato nuovi avvisi di evacuazione nel Nord di Gaza e ha lanciato una nuova offensiva di terra mirata rioccupando il corridoio Netzarim che divide la Striscia in due parti. Da qui l’esercito israeliano si era ritirato dopo aver siglato l’accordo per il cessate il fuoco dello scorso gennaio. Si aggravano così sia il disastro umanitario in corso nella Striscia sia le politiche genocidarie di Israele in un contesto di carenza strutturale di ospedali e strutture mediche per curare i feriti a Gaza.

 

Non sono mancate critiche e manifestazioni in Israele contro il premier, Benjamin Netanyahu, che avrebbe ripreso la guerra a Gaza con lo scopo di rafforzare la sua coalizione di governo, favorendo il rientro del ministro radicale Itamar Ben-Gvir che aveva lasciato l’esecutivo per protestare contro l’accordo con Hamas, in vista del voto in parlamento sul nuovo budget.

 

Le violenze contro gli alauiti in Siria

Ma le violenze in Medio Oriente non si fermano qui. Sono oltre mille i morti degli scontri settari che hanno colpito le città costiere di Latakia e Tartus e i villaggi del Nord-Ovest della Siria, come al-Mukhtaria e Arza, dove vive la comunità alauita. Le violenze sono iniziate con gli attacchi lanciati da 4mila miliziani pro-Assad contro 30 check-point in diverse località del paese. A quel punto il governo siriano ha lanciato una richiesta su Telegram che ha spinto le fazioni affiliate, incluse le milizie controllate dalla Turchia, a recarsi in massa nelle città costiere.

Non si tratta dei primi episodi di settarismo dopo la fine del regime di Bashar al-Assad e l’arrivo al potere del leader del gruppo islamista Hayat Tahrir al-Sham (HTS), Ahmed al-Sharaa. Già lo scorso dicembre la comunità cristiana siriana era stata colpita dalla violenza del settarismo che, secondo i sostenitori dell’ex presidente al-Assad, era scongiurato dal suo controllo autoritario delle istituzioni.

Tra i morti oltre 700 sono civili, ma centinaia sono anche le vittime tra i rimanenti del vecchio regime che continuano ad essere numerosi proprio nelle città alauite, la stessa minoranza dell’ex presidente al-Assad e che rappresenta il 10% della popolazione, e tra le forze filo-governative e le milizie collegate. Video cruenti di esecuzioni sommarie, detenzioni forzate e di decine di cadaveri sono circolati nei giorni scorsi per testimoniare la brutalità delle violenze. “Dobbiamo preservare l’unità nazionale e la pace, possiamo vivere insieme”, aveva dichiarato al-Sharaa dopo aver partecipato alla preghiera in una moschea nel centro di Damasco.

Tuttavia, le parole del presidente siriano ad interim sono suonate come poco incisive e non di ferma condanna per impedire che violenze settarie così gravi si ripetano. L’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Geir Pedersen, ha chiesto alle autorità di Damasco di proteggere i civili. Anche la Francia ha chiesto di inviare indagini per stabilire le responsabilità nelle violenze.

 

La dichiarazione costituzionale

Nonostante gli scontri, al-Sharaa ha annunciato la firma di una dichiarazione costituzionale che regolerà i prossimi cinque anni di transizione politica. Al-Sharaa ha parlato dell’inizio di una “nuova storia in cui la repressione sarà sostituita dalla giustizia” per la Siria. Nel testo si fa riferimento alla dichiarazione dello stato di emergenza, mentre estesi poteri vengono assicurati al presidente della Repubblica.

A Damasco, si erano tenuti colloqui la scorsa settimana per delineare la difficile fase di transizione politica. Era in discussione la creazione di un’istituzione che gestisca la giustizia in questa fase transitoria per superare la guerra civile e che si occupi della stesura della nuova costituzione. L’altro tema sul tavolo è la creazione di un esercito unitario nazionale. “Chiedo a tutti i siriani di essere uniti per curare le ferite dopo decenni di dittatura”, aveva detto al-Sharaa all’inizio dei colloqui.

 

Tuttavia, non tutti i rappresentati delle frammentate opposizioni siriane avevano preso parte ai colloqui, organizzati in fretta e furia e in forse fino all'ultimo minuto. Molti rappresentanti delle minoranze curde, cristiane, druse e alawite hanno espresso preoccupazione sui risultati di un dialogo nazionale che dovrebbe essere auspicabilmente inclusivo.

 

L’accordo con i curdi

Tuttavia, anche in seguito alla dichiarazione di Abdullah Öcalan per il disarmo e lo smantellamento del partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), un accordo preliminare con il partito democratico unito (PYD) è stato siglato a Damasco. L’intesa, firmata da Mazloum Abdi, in rappresentanza delle Forze siriane democratiche (SDF), porterà il Nord-Est della Siria sotto il controllo delle autorità di Damasco. Lo scopo dell’intesa è di integrare le 30mila unità delle forze curde delle Unità di protezione maschile e femminile (YPG-YPJ) nell’esercito regolare siriano. L’intesa determinerà anche il riconoscimento della cittadinanza e dei diritti dei curdi siriani, a lungo negata dal regime di al-Assad. Tuttavia, rappresentanti di SDF hanno criticato la dichiarazione costituzionale firmata a Damasco accusando le autorità siriane di “mancanza di democrazia”.

Si aggravano invece le tensioni tra Damasco e Tel Aviv. Per Israele, che vede con sospetto il nuovo corso in Siria e il sostegno assicurato dalla Turchia a HTS, l’esercito siriano non dovrebbe muoversi a Sud di Damasco. Dopo i gravi attacchi dell’esercito israeliano (IDF) contro 360 obiettivi militari in Siria dei mesi scorsi, la periferia della capitale siriana è stata colpita di nuovo lo scorso giovedì dai raid di Tel Aviv. L’obiettivo delle operazioni militari israeliane è impedire qualsiasi rifornimento del movimento sciita libanese Hezbollah da parte iraniana.

 

Il ruolo iraniano

Se la minoranza alauita in Siria è nel mirino è soprattutto dovuto al fatto che non è più protetta dalla presenza iraniana nel paese. Teheran con le sue milizie aveva garantito la tenuta del regime di Bashar al-Assad durante la guerra civile siriana (2011-2024) di cui il 15 marzo è stato celebrato il 14esimo anniversario dallo scoppio delle prime proteste anti-governative nella città di Daraa nel Sud della Siria.

Il presidente degli Stati Uniti aveva fatto sapere di aver inviato una lettera alla guida suprema iraniana, Ali Khamenei, per avviare un negoziato che portasse a un possibile nuovo accordo sul nucleare di Teheran. Eppure, Khamenei ha rimandato al mittente la richiesta puntando il dito contro la “prepotenza” di Trump che, una volta insediatosi, ha imposto immediatamente nuove sanzioni contro il settore petrolifero iraniano paventando le possibilità di un attacco armato.

Come se non bastasse, nei colloqui che si sono tenuti a Pechino, Russia e Cina hanno chiesto la revoca delle sanzioni Usa contro Teheran. In particolare, Mosca aveva siglato accordi rafforzati di cooperazione militare con l’Iran ed è impegnata in un difficile tentativo di avviare un cessate il fuoco nella guerra in Ucraina che potrebbe ridisegnare i rapporti di forza geopolitici regionali a favore di un riavvicinamento con gli Stati Uniti di Trump.

 

Le continue minacce da parte di tutti gli attori coinvolti nel conflitto di mettere fine alla tregua a Gaza hanno riportato di nuovo la guerra nella Striscia. I raid israeliani, motivati principalmente da questioni di politica interna, rendono sempre più difficile l’inizio della seconda fase del cessate il fuoco che avrebbe finalmente avviato la ricostruzione di una terra dilaniata dalla guerra. Non solo, si aggravano le violenze settarie a orologeria in Siria. Ad essere nel mirino delle violenze questa volta è stata la comunità alauita siriana colpita dalle milizie turche e filo-governative. Tuttavia, in discussione nel paese è l’intero assetto istituzionale post-Assad che potrebbe determinare un’integrazione delle forze curde nell’esercito regolare siriano. Ma la fine dell’influenza iraniana e russa, soprattutto nelle città costiere del paese, sta mettendo a rischio la vita di milioni di persone. Simili divisioni settarie riguardano le altre minoranze, inclusi i cristiani e i drusi. Non solo, i diritti delle donne e le libertà democratiche potrebbero essere messe a rischio dal governo al-Sharaa fortemente radicato nell’islamismo politico.

Pubblicato il 

21.03.25
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